Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (Antonio Gramsci)

sabato 19 aprile 2014

Prima gli italiani

Questa parola d'ordine xenofoba aveva già avuto una breve stagione di popolarità, riprende adesso fiato, rilanciata dal successo dell'analogo motto del FN francese.
Destinata a una limitata diffusione, in periodi di relativa abbondanza, rischia di dilagare in momenti di penuria delle risorse, un fenomeno assolutamente naturale.
Assume, talvolta, sembianze ridicole:
Rispetto a questa affermazione, ci si divide su basi ideologiche, accettandola o rifiutandola totalmente, senza entrare nel merito, per giustificarne, o rigettarne, i fondamenti.
Chi sostiene questa parola d'ordine, interrogato a proposito, generalmente risponde: prima c'eravamo noi, poi sono arrivati loro. Affermazione che suona come una solenne cretinaggine, e probabilmente lo è, ma che è anche la risposta che darebbe l'uomo della strada palestinese, a proposito dei suoi guai.
Certamente, l'evoluzione delle due situazioni è completamente differente, ed è poco lecito confrontarle, in Palestina si contrappongono due stati sovrani. Però, probabilmente, questa stessa risposta la si sarebbe già sentita nel 1948, quando la porzione di sovranità israeliana era molto limitata e i coloni ebrei acquistavano terre in territorio palestinese. A quel tempo, la frase non alludeva a una contrapposizione tra stati, ma tra nazioni.
Ma, ugualmente, il paragone non calza, i mityashvim si ispiravano al modello dell'espansione a ovest dei coloni americani, quella Nuova Frontiera in cui era ammesso, spacciato per autodifesa, l'uso disinvolto delle armi, contro i nativi. 
L'atteggiamento violentemente rivendicativo su quelle terre era già stato reso chiaro dalle azioni dell'Haganah, anche se le potenze occidentali finsero di non vedere.
1948: Militi dell'Haganah scortano gli arabi espulsi da Haifa
Forse, fatte le debite proporzioni, nella sensazione che l'autorità, fingendo di non vedere, parteggi per i nuovi arrivati, c'è l'unica analogia credibile.
Restiamo comunque agli ebrei, per osservare questa vignetta, pubblicata su un giornale tedesco, molto prima che Hitler andasse al potere:
Secondo il censimento del 16 giugno 1933, la popolazione ebraica in Germania  contava circa 505.000 persone su un totale di 67 milioni di abitanti; in altri termini, meno dello 0.75 per cento.
I primi insediamenti della diaspora in territorio tedesco sono anteriori al X secolo, dunque questa piccola minoranza è qui da un millennio.
Ciononostante, il senso della vignetta è chiaro, malgrado i mille anni trascorsi, rimangono gli ultimi arrivati, che occupano i posti che dovrebbero essere riservati ai più antichi titolari della germanità.
Ben pochi oggi, soprattutto sapendo come è andata a finire, sosterrebbero quello che la vignetta dice esplicitamente e cioè che qualcuno possa essere mantenuto in eterno nella condizione di più o meno gradito ospite.
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Questa vignetta è tratta dalla propaganda elettorale della Lega, di qualche anno fa. Il senso è quasi lo stesso di quella precedente: in coda nell'ambulatorio del medico, il pensionato italiano è preceduto da un cinese, una zingara, un africano e un arabo.
A parziale difesa del vignettista leghista dobbiamo dire che il gesto imperioso e prepotente dell'arabo dà alla scena un carattere simbolico. Mentre nella vignetta tedesca, gli ebrei erano comodamente seduti in tram a loro buon diritto, qui, a quanto pare, il diritto di precedenza si basa su un arbitrio.
Sembra fare la differenza, perché nel primo caso si richiedeva, come poi ci fu, una discriminazione, che subordinasse il diritto del singolo alla sua appartenenza razziale, mentre qui sembra chiedersi, seppure in termini torbidi, il rispetto delle regole.
Dunque, neanche Salvini pretenderebbe una legge che obblighi su base etnica a cedere il posto sull'autobus, o la precedenza nella coda. Ma è proprio vero?
Quando, per esempio, si chiede la precedenza per gli Italiani nell'assegnazione di un alloggio popolare, si chiede proprio questo, che il diritto di nascita prevalga su tutti gli altri requisiti che concorrono a determinare il punteggio in graduatoria.
Sembrerebbe dunque di essere rifluiti nel dominio di senso della vignetta nazista, ma proprio in questi giorni ho compilato la domanda di trasferimento in altra scuola.
Anche in questo caso si deve accedere a una graduatoria. Per la scuola, il punteggio è determinato dai titoli di studio e di merito, dai carichi di famiglia e, soprattutto, dall'anzianità di servizio.
A parità di diplomi, concorsi superati e numero e condizione dei figli, chi ha un anno in più di servizio, passa avanti.
E' evidente che il senso comune vede un analogia tra l'anzianità di servizio, che viene conteggiata e quella di cittadinanza, che non si calcola. In questo caso, il gesto imperioso dell'arabo, nella vignetta leghista, si spiega, anche se si attribuisce razzisticamente all'immigrato, perché ne è il beneficiario, un arbitrio che è in realtà fatto dallo stato che non riconosce un tuo diritto. 
Bisogna vedere se l'analogia è fondata.
Si suppone che chi lavori in una qualsiasi istituzione, l'arricchisca del proprio lavoro e l'anzianità di servizio calcola la sua quota nel capitale sociale investito. Dunque la scuola, valuta i miei trent'anni di contributo, ma giustamente non si cura del fatto che mio padre o mio nonno siano o non siano stati, a loro volta, insegnanti, i loro meriti non si sommano al mio. 
Certamente ognuno è titolare anche di una quota di un più vasto capitale sociale fatto di asili, ospedali, previdenza, ferrovie e di ogni altra cosa alla cui edificazione, mantenimento ed espansione, contribuisce.
Bisogna vedere come calcolare tale quota, il criterio anagrafico è fallace. Nel 1961 io ero cittadino italiano già da dieci anni, ma Mike Bongiorno, che lo diventerà solo nel 2008, aveva certamente contribuito molto più di me all'arricchimento del capitale sociale.
Dunque, se non si vogliono rendere ereditari i meriti di padri e nonni, l'unico criterio giusto resta quello del lavoro e cioè dell'anzianità contributiva, previdenziale e/o fiscale.
Ma applicare questo criterio all'assegnazione delle case popolari sarebbe disastroso, perché tale istituto è stato previsto proprio per chi, per un'infinità di ragioni, è finito ai margini dell'attività produttiva: disoccupati, invalidi, lavoratori occasionali.
Applicare questo criterio, sarebbe stravolgerne i fini. Oltretutto, si rischierebbe di aumentare la quota di assegnatari immigrati, a discapito degli italiani.
Sfumato così il diritto, dietro la proposta resta solo il razzismo.
Evidentemente la proposta da fare è un'altra: lasciare agli ultimi le case popolari e avere affitti a reale valore di mercato per chi lavora. Cioè affitti che non devono prescindere dal valore medio dei salari.
In poche parole bisogna reintrodurre l'equo canone, che fu tolto da Amato per alimentare una bolla speculativa che solo per miracolo non ha avuto l'impatto dei subprime americani.
Con l'equo canone si dà un colpo alla rendita del lavoro morto, valorizzando il lavoro vivo e si evitano al contempo le guerre tra poveri alimentate da speculazioni razziste.