Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (Antonio Gramsci)

venerdì 12 giugno 2015

Vostra eccellenza

La mediocrità borghese del primo della classe o del capufficio si spaccia, in questo disgraziato paese, per eccellenza.
Stereotipo di questa categoria di dottissimi idioti è, il tuttora inutilmente vivente professor Mario Monti.
Questo pezzo di cretino, un modesto contabile servo di volontà altrui, è stato dipinto, da una stampa ancor più servile e prona, come una specie di genio e salvatore della patria.
In realtà il laido personaggio, digiuno dei più elementari rudimenti di dottrina politica, e animato unicamente dalla volontà di servire gli interessi del capitale finanziario, non ne ha imbroccata una.

  • i suoi provvedimenti sulle pensioni sono stati dichiarati incostituzionali
  • analogamente appare incostituzionale il blocco dei contratti del pubblico impiego
  • sono invece invece contrari alla normativa europea i suoi provvedimenti tesi a rendere la banca obbligatoria per tutti, spacciati per norme antiriciclaggio (che in nessun modo servirebbero a contrastarlo).  
Fior di istituzioni gli hanno dato dunque la patente di cretino e di mascalzone che si è meritata. Ma noi continuiamo a tenercelo come senatore a vita.
Andrebbe linciato.

venerdì 1 maggio 2015

Potenza dell'impotenza


Un effetto l'hanno ottenuto, quello di legittimare, nel senso comune generale, l'aberrante dichiarazione di Alfano che ha testualmente detto che molti delinquenti sono stati preventivamente fermati, con ciò facendo piazza pulita non solo del garantismo puntualmente assicurato alla malavita di stato, ma anche delle più elementari norme di diritto che escluderebbero che si possa essere delinquenti prima di delinquere. Questa generalizzazione preventiva potrà essere estesa a chiunque e non si mancherà di farlo.
Ma il punto, ovviamente non è questo, ma la semplice constatazione che qualcuno si ostina a alzare i livelli di scontro a prescindere dai rapporti di forza concreti.
Il proletariato non può adottare la tattica militare della sua controparte senza andare incontro a una sconfitta certa.
Non occorre essere von Clausewitz per comprendere che nello spostamento di reparti da un capo all'altro della penisola, a seconda delle necessità, lo stato è vincente su qualsivoglia organizzazione di black block.
Il proletariato non vince con truppe aviotrasportate, ma con il controllo permanente del territorio che passa attraverso la costruzione di una rete di sostegno e solidarietà per la quale è necessario un paziente lavoro politico di lunga lena.
Senza questo, le volatili vittorie di qualche radiosa giornata non possono che ritorcersi puntualmente sugli strati popolari, non solo per l'aumento in ragione geometrica della inevitabile repressione, ma soprattutto per la totale messa in mora di ogni loro ragione, sopraffatta dall'egemonia dell'avversario anche all'interno della classe stessa.

Detto questo, non si può non convenire che l'associazione del tema della fame nel mondo con le vetrine expo delle multinazionali costituisce una provocazione grave.
Diciamo di più, questo indegno festival dell'ipocrisia è la riproposizione, fuori tempo massimo, di una dottrina che pensavamo in ritirata e che invece torna all'attacco, quella per cui bisogna riempire ben bene il piatto dei ricchi perché i poveri possano nutrirsi delle briciole che ne cadono.  
Perfino il messaggio del papa per l'inaugurazione dell'Expo sembra ammiccare a questa nefanda teoria di cui, in futuro, dovremo vergognarci come di Auschwitz.
La misura della ributtante ipocrisia che c'è dietro tutto questo, ce la fornisce Pisapia, supposta voce della Milano democratica, che esterna indignazione davanti alla Scala, mentre dietro le sue spalle sfila ingioiellata e in ghingheri la crema di Milano e dell'Italia, decisa, per combattere la fame del mondo, al sacrificio di assistere alla Turandot, sfoggiando toilettes costose come l'intero PIL del Burkina Fasu.
Comprendiamo dunque benissimo, ma senza giustificarlo, che si possa essere indotti a rispondere con un'esplosione di violenza che è, però, implicita ed evidente ammissione di impotenza politica e modesto risarcimento simbolico di una sconfitta vissuta come irreversibile.
Ma la sconfitta non è irreversibile se si avrà l'avvertenza di non prendere scorciatoie e costruire il solo strumento che potrà organizzare e condurre la lotta definitiva e finale di una classe contro l'altra: il Partito Comunista.


domenica 26 aprile 2015

La verità sulla brigata ebraica

Sul treno, verso la manifestazione del 25 aprile.
Due signore, due file più avanti, ci stanno andando anche loro, parlano della Brigata Ebraica, in relazione alle polemiche anticipate dalla stampa, e dal tenore del loro colloquio, comprendo che sono convinte che sia stata una brigata partigiana formata da ebrei.

Non è così, era un unità militare del corpo di spedizione britannico e venne istituito nel settembre del 1944 dopo una lunga trattativa fra i rappresentanti del movimento sionista, l’Agenzia sionista e il governo britannico, presieduto dal 1940 da Winston Churchill, governo inizialmente non favorevole alla costituzione di una unità militare esclusivamente ebraica. Fu ufficialmente chiamata Jewish Infantry Brigade Group.
La Brigata sionista non comprendeva ebrei italiani, essendosi costituita nella Palestina del mandato britannico. Ne facevano parte ebrei provenienti dalla Palestina storica che sarebbe poi diventata l’attuale Israele e di ebrei  provenienti da altri paesi del Commonwealth britannico, Canada, Australia, Sud Africa e di ebrei di origine polacca e russa. 
Mi intrometto e spiego. Faccio notare, anche, che è l'unica unità, delle tante dell'armata alleata, che partecipa alla sfilata.
Restano interdette, ma hanno una risposta di riserva: Comunque, se hanno sempre partecipato alla manifestazione, hanno diritto di venirci ancora.
Le disilludo, la Brigata Ebraica partecipa alla manifestazione solo dal 2004, data in cui si suppone che la maggior parte dei suoi componenti fosse ormai estinta. Le invito a riflettere sulle probabili ragioni politiche di questa scelta estemporanea. 
Ma invano, il circuito mentale Auschwitz/Ebrei esclude quello Palestina/Israele.
Ma sulle ragioni politiche lascio la parola all'Associazione amici d'Israele:
Il 25 aprile 2004 è una giornata che noi soci ADI stenteremo a dimenticare. Da anni eravamo stanchi di partecipare (come singoli individui) ai festeggiamenti della Liberazione circondati da bandiere palestinesi. Due anni fa poi, il nostro Segretario Generale Davide Romano lanciò l'idea, subito accolta, di partecipare come ADI alla manifestazione del 25 aprile sotto le insegne della Brigata Ebraica.
Solo l'anno scorso però riuscimmo ad avere i fondi per comprare uno striscione degno di tale nome; ed i primi risultati di visibilità, oltre che di dibattito storico, si iniziarono ad intravedere.

Per noi Amici d'Israele era importante qualificarci in maniera diversa: in primo luogo per ricordare gli eroi della Brigata Ebraica ma anche, ed è inutile nasconderlo, per non farci annoverare tra la massa dei manifestanti antiamericani o antisraeliani (o filoarafat, e quindi contro una democrazia palestinese)... Il successo della manifestazione, per il quale dobbiamo ringraziare tutti i partecipanti, è stato però più rilevante dal punto di vista culturale che dal lato delle presenze...Dal lato culturale infatti, siamo riusciti come ADI - in soli 2 anni - ad imporre all'attenzione dei mass-media e del dibattito culturale la questione della Brigata Ebraica. Non solo: se vi soffermate sulla scritta riportata sullo striscione potrete notare la scritta: "Brigata Ebraica. Anche loro, 5.000 sionisti, liberarono l'Italia".
L'utilizzo del termine "sionisti" è stato scelto con cura. Con tale messaggio infatti, abbiamo già voluto introdurre la prossima battaglia culturale: quella dello "sdoganamento" del sionismo. 


lunedì 13 aprile 2015

peggio di un crimine, è un errore

peggio di un crimine, è un errore
Citiamo da Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, per commentare questo manifesto:



In questo manifesto vediamo concentrati tutti gli errori che derivano da una non corretta concezione di classe (Toni Negri et altri).
Parafrasando la nota poesia del pastore Martin Niemöller (erroneamente attribuita a Brecht), si fa un elenco di supposte soggettività resistenti.
Si suppone, quindi, che la somma di differenti categorie in oggettiva contraddizione con l'esistente possa diventare l'agente rivoluzionario che sopprime lo stato di cose presenti.
Le cose, e lo si sa bene, nella realtà non vanno così.
Infatti, quando si va a prendere i migranti, i Rom non ci sono e se si va a prendere i Rom non ci sono i migranti, quando poi si va a prendere queer, gay e lesbiche, non ci sono né i Rom, né i migranti e così via.
Insomma, quel noi di cui si parla non rappresenta la somma di tutti gli altri menzionati (Rom, migranti, gay, autoassegnatari, antifascisti) perché queste categorie non sono solo in contraddizione con gli attuali assetti di potere, ma anche tra di loro.
Quel noi, dunque, è lontano dall'identificarsi con tutti quelli che vengono menzionati e ancor più lontano dal potersi identificare, come si pretende nel finale, nell'intera umanità. 
Già, perché alla fine si riesce a dare un nome al soggetto rivoluzionario che addirittura si identificherebbe con l'umanità.
Eccoci ripiombati in pieno delirio utopistico, al socialismo di Saint-Simon, Owen e Fourier e  all'anarchismo. Siamo alla metà dell'800, o forse più indietro, al cristianesimo delle origini.
Se, infatti, il destinatario del messaggio rivoluzionario è l'umanità in genere, quello che si spera è che le idee buone si impongano su quelle cattive.
Ma la storia si incarica di avvertirci che le cose non funzionano così e che anche se una buona idea, come il cristianesimo, riesce ad imporsi e a divenire patrimonio comune di gran parte dell'umanità, poi la pace e la giustizia non arrivano lo stesso.
Insomma, la lotta non è, come nelle favole e nei film americani, tra buoni e cattivi, ma tra interessi inconciliabili.
Marx ci ha erudito da ormai molto tempo sul fatto che tali interessi contrapposti determinano la lotta incessante delle classi.
La lotta rivoluzionaria, insomma, non è battaglia di idee, o non è solo quello, è soprattutto lotta di classe.
L'elemento centrale e determinante di tale lotta, per l'appunto la classe, è il grande assente di questo manifesto che denuncia così i suoi tratti di volontarismo piccolo-borghese dietro al quale si nasconde spesso, talvolta inconscia, una presunzione di superiorità antropologica che non può avere nessun aspetto progressista.




domenica 1 marzo 2015

L'inopportunista. Triste e ridicola fine di un leader di paese

Claudio Ardizio, esodato e leader della sinistra novarese che guarda a Tsipras, ha preso la parola alla manifestazione di Roma di Salvini e dei fascisti.
Nessuno, in quel frastuono, ha sentito cosa ha detto e se qualcuno l'ha sentito, del suo intervento non ricorda neanche una parola . Di quell'istante che, secondo lui, doveva palesare la sua statura di dirigente nazionale, resta solo una fotografia che lo ritrae in cattiva compagnia.
Talvolta l'opportunismo determina scelte davvero inopportune, tanto che sembrerebbe più appropriato parlare di inopportunismo.
Sconforto, ira e depressione tra i suoi sostenitori novaresi, da poco frustrati dalla defezione di Fonzo, il vicesindaco SEL passato in area PD per un piatto di lenticchie, e da tempo orfani del più illustre prodotto della locale Camera del Lavoro, quel Fausto Bertinotti inghiottito dai velluti dei salotti romani. Adesso sperano in Landini.
E qui sta il punto: quello di una sinistra che sente il bisogno di incarnarsi in un leader, cui fa riscontro la proliferazione di individui che di cotale sinistra credono di essere i leader. 
La biografia di Ardizio è emblematica di questo processo. Ardizio entra nel PCI negli anni del tardo berlinguerismo, quando bastava voler far pagare le tasse a tutti e non calpestare le aiole per sentirsi comunista.
E' con questo bagaglio ideologico da cittadino svizzero che non segue la svolta della Bolognina e approda a Rifondazione. 
Qui, dove c'è gente che non paga il biglietto dell'autobus, si sente a disagio e non si sente tenuto nella giusta considerazione.
Approda così a un caravanserraglio di avventurieri, i Moderati per Bresso, che sgomitano tra loro per un posto retribuito.
Sembrerebbe approdato alla meta finale, giacché moderato lo è sempre stato.
Ma disgraziatamente il ministro Fornero, con improvvido provvedimento, lo colloca, dall'oggi al domani, tra gli esodati.
E' una trasformazione che ha portata ontologica, da ingegnere che ha soggettivamente scelto di stare con gli sfruttati, entra, o crede di entrare, nel campo di chi è oggettivamente sfruttato.
La metamorfosi sociale dà ossigeno e credibilità alle sue mai tramontate ambizioni di avere un ruolo politico. Adesso ha una mission da portare avanti e ci prova, prima con Alba, poi con Ingroia, poi con Tsipras, infine con Salvini.
Sbaglierebbe chi pensa che le ambizioni di Ardizio abbiano un orizzonte per così dire, monetizzabile.
No, lui è sicuro di avere delle buone idee ed è convinto di essere indispensabile per il progresso dell'umanità.
Nel genere umano quasi tutti sono utili, pochissimi sono superflui e nessuno è indispensabile. Resta la questione delle buone idee, il peccato originale della faccenda.
Le buone idee noi le troviamo in quello che leggiamo, vediamo, ascoltiamo. Le desumiamo, cioè da un sistema di informazione che è quasi interamente nelle mani del padrone.
Il fatto che siano diffuse dal padrone non implica che non ci siano in giro idee davvero buone, tutto sta nel trovarle e distinguerle da quelle che buone non sono.
Ne consegue che noi non abbiamo bisogno di una collezione di buone idee, ma di un metodo per distinguerle.
Per i comunisti c'è un ulteriore sforzo da fare, distinguere tra le idee compatibili col proprio esser comunista e quelle che con esso sono coerenti, cioè, in altre parole, tra quello che si può fare e quello che si deve fare.
Compito del partito, intellettuale collettivo, garantire la corretta applicazione del metodo, stabilire la giusta gerarchia delle idee, ridimensionare le ipertrofie dell'io dei militanti.
Al sistema tolemaico dell'intellettuale piccolo borghese, che si sente il centro dell'universo, si deve sostituire il sistema copernicano, in cui tutto ruota attorno al principio della lotta di classe.
Dove non c'è il partito, non c'è né sistema copernicano, né tolemaico, ma un arcipelago di idee che reclamano tutte la propria centralità e autonomia. Qui, a governare i mille capitani di ventura che armano navi corsare, non può che essere il carisma di un grande capo.
Ardizio, culturalmente, è tutt'altro che uno sprovveduto, fa collezione di lauree. Tutte di tipo tecnico-scientifico. Forse, se ne avesse presa anche una di tipo umanistico, avrebbe potuto realizzare che se un intellettuale borghese  decide di rinnegare la propria classe, deve rinnegarla per davvero.
E seguire la regola numero uno: meglio aver torto col partito, che avere ragione contro.
Poi, naturalmente, ci vuole il partito.





venerdì 23 gennaio 2015

Come si fabbrica un terrorista

Alba del 17 settembre del 2000, un automobile della polizia allertata da un vicino, intercetta un furgone che risale la rampa di un garage. Gli agenti intimano l'alt, ma il mezzo prosegue la sua corsa e, incurante di un primo colpo esploso, si dirige contro l'auto della polizia che tenta di sbarrargli la strada.
La polizia spara ancora: tre colpi, poi altri due. Questa volta il furgone si ferma, Ali Rezgui, 19 anni, alla guida del veicolo, è morto sul colpo, sventrato dai proiettili. 
Il complice che gli era seduto accanto riesce a dileguarsi, mentre un terzo è intrappolato all'interno del mezzo, tra le moto rubate. È il diciottenne Amedy Coulibaly, che in un solo attimo ha perduto il suo miglior amico e la libertà.
La notizia non passa sotto silenzio a Grigny, la cittadina dove abitavano i ragazzi: municipio di 27.000 abitanti, comunista da sempre, alle porte di Parigi.
Non si può morire per il furto di un paio di motociclette, roba da 4 mesi di galera, e la polizia avrebbe ben potuto mirare alle ruote del veicolo e non alla pancia di un ragazzo.
L'ira di amici e coetanei esplode e per più notti la polizia deve fronteggiare un riot come si deve.
Ma  Amedy Coulibaly non partecipa al collettivo rito liberatorio, è al suo primo arresto. Ce ne saranno altri.

Settembre 2000, scontri a Grigny
C'è, naturalmente un'inchiesta, che viene regolarmente archiviata un paio di settimane dopo. Coulibaly non è convocato come testimone, bastano i poliziotti a testimoniare sul loro stesso operato.
Molti anni dopo, quando Hayat Boumedienne gli chiederà di farle conoscere i suoi amici, le risponderà che ne ha uno solo, Ali Rezgui.
A vent'anni, malgrado una carriera scolastica accettabile, Coulibaly è uno spostato e nell'età in cui molti dei suoi coetanei di quartiere tentano di mettere la testa a posto, lui alterna la scuola alle rapine.
Dopo una banca di Orleans, rapina due bar di fila a Parigi, ma la doppietta è eccessivamente ardita e Amedy si ritrova a passare sei anni a Fleury-Mèrogis.
 Amedy Coulibaly  nel carcere di  Fleury-Mèrogis
Qui, insieme ad altri quattro detenuti, introdotte clandestinamente due microcineprese, filma per mesi, all'insaputa degli altri carcerati e delle guardie, ciò che avviene nel più grande penitenziario d'Europa. Un crudo documento di denuncia di violenze, carenze igieniche e alimentari e del dominio della legge del più forte.
In quest'ambito concede un'intervista, rigorosamente anonima, a Le Monde.
È lucidamente critico sul sistema carcerario (La prison, c'est la putain de meilleure école de la criminalité) ma lui non è un inerme, ha interiorizzato la loi du fort e sa farsi rispettare. 
All'inizio, quando sono arrivato, mi sono detto, mollo tutto. Ma il tempo passa e adesso dico che me ne fotto di tutto, sono loro che mi hanno fatto sclerare. Come pretendete di insegnare la giustizia con l'ingiustizia?  
Così passa il tempo mantenendosi in forma fisica e giocando con la play station e tra le sbarre impara a fare il boss, facendosi beffe dei secondini, che non riescono mai a prenderlo in castagna con un telefonino abusivo o una dose di droga.
Quelli, allora, gli sequestrano la play station, e non gliela ridaranno più, aggiungendo rabbia alla rabbia (Ils avaient pas le droit. Je l'avais payée 320 euros...).
Chissà se Coulibaly abbia mai accarezzato il progetto di riciclarsi come giornalista. Certo è che quei filmati li cede alla fin fine, e per un buon prezzo a France 2.
Bisogna avere delle riserve, quanto meno per pagare gli avvocati, spiega.
In quel tempo, siamo nel 2005, l'Islam non ha un gran posto nelle sue fantasie, dominate dall'ossessione dei soldi. Le fric, le fric, le fric. Se avessi voluto darne una definizione, avrei utilizzato queste parole - dice uno dei suoi amici - dell'Islam, invece, non ne parlava mai.
Ma la grana, le fric, segna il confine tra chi ha il potere e chi non ce l'ha. La prospettiva di passare la vita in fabbrica, come suo padre, non lo esalta.
Presto anche questo sembra acqua passata: ho fatto una virata di 180° -  spiega alla polizia che lo sospetta di  aver partecipato al tentativo di evasione di Ali Belkacem, autore degli attentati alla RER del '95 - non voglio prendermi una pallottola in testa, come capita a chi non sa dire basta.
E in fabbrica, dopo tutto, ci va, fa il magazziniere alla Coca Cola, 2000/2200 euro al mese, e si è anche sposato, sia pure solo religiosamente, con Hayat Boumedienne, carina, sei anni più giovane.
Il resto è cronaca, sia pure confusa: una conversione all'integralismo e l'avvicinamento alle frange estremiste, tutto sotto lo sguardo vigile, ma assolutamente impotente, delle autorità.

Ma evidentemente, in questa storia manca un passaggio, quello che spiega la trasformazione di un giovane deciso, senza farne alcun mistero, alla carriera criminale (i soldi per pagare gli avvocati...) nel kamikaze islamista che occulta i suoi propositi nella finzione (ho fatto una virata di 180°...).
È un passaggio non da poco perché ipotizza la trasformazione di una personalità istrionica in una personalità paranoide. (salvo tornare, nel gran finale. alla condizione di partenza).
Naturalmente non sappiamo proprio tutto della vita di Amedy e quindi è difficile tentare una spiegazione, ma possiamo provarci con il poco che abbiamo.
Amedy cresce in una banlieue operaia. Le sue prospettive sociali sono, al meglio, fare la vita di suo padre e entrare in fabbrica.
Ma non è suo padre, né soggettivamente, né oggettivamente. Non è, come suo padre, un emigrato dal Mali, ma un ragazzo nato e cresciuto in Francia e a differenza di suo padre, non vivrebbe la condizione operaia nella prospettiva di riscatto sociale sottesa dalla società classista del 900, ma in quella marginalizzante della società individualista del XXI secolo.
La società dei liberi e uguali ha una logica disgiuntiva: o dentro o fuori, o successo o fallimento, o sommerso o salvato. Il ruolo coincide con lo status, le fric.
E alla grana punta, quando ancora va a scuola e modesti grisbì bastano ad attenuare le differenze coi figli di papà.
È in quell'età a cavallo dell'infanzia, in cui ci si sente onnipotenti ed immortali.
Entra crudelmente nell'età adulta quel 17 settembre e scopre che la realtà, a differenza dei videogiochi, non concede vite di riserva.
Le sbarre di Fleury-Mèrogis inghiottiranno anche l'onnipotenza.
Ma qui, forse inconsapevolmente, si inventa un mestiere e produce un documentario che in America avrebbe ottenuto il Pulitzer.
Logico che a questo punto abbia ambito far qualcos'altro, piuttosto che il ladruncolo, avendone dimostrato le capacità. Forse avrà sperato in un'offerta, anzi, l'avrà data per certa.
Ma le corporazioni sono caste chiuse, per il suo lavoro gli offrono quattro soldi, che a lui sembrano tanti.
Aveva cercato soldi, gli hanno dato la galera, voleva un ruolo gli hanno dato soldi.
Accetta, ma con rabbia, reagendo come i bambini bocciati a scuola che, per difendere il proprio io, fingono di infischiarsene dell'istituzione che li rifiuta.
Ma è intelligente e la galera è stata per lui un università, ormai sa benissimo che non è con le rapine che  può cambiare la propria vita. Sa che il rapinatore è il proletario del crimine e che anche in quel mondo infero comandano gli stessi padroni dell'altro.
Le fauci della marginalità, del tirare a campare, a cui aveva cercato di sottrarsi, sacrificando il miglior amico e anni di giovinezza, tornano a spalancarsi per inghiottirlo.
Gli è rimasta solo l'identità: nero e islamico. E a quella si appiglia.
Del resto anche questo gli hanno insegnato, che le uniche identità collettive in cui puoi sentirti meno debole, meno solo e meno inutile sono quelle delle appartenenze di genere e specie. 
Il resto è facile da indovinarsi, l'identificazione (ma sarà una novità?) con la prospettiva di un riscatto che può essere solo ultramondano, il rifiuto totale dei valori di una società che lo ha escluso, la certezza di non aver debiti con la Francia.
Dall'esordio del settembre 2000, al gran finale del gennaio 2015, la personalità di Coulibaly non subisce trasformazioni. Non è  né istrionica, né paranoide, ma quella di un ragazzo sensibile, orgoglioso e ferito.

giovedì 8 gennaio 2015

Un altro libro revisionista e antistorico

Nel mese di novembre ho partecipato a Robecchetto con Induno alla presentazione di un libro dal titolo: “SU QUELLA CHE FU LA RESISTENZA (1943-1948) partigiani e patrioti” i cui autori erano Giuseppe Leoni e Alessandro Maiocchi.

Già dal periodo in cui viene collocata la Resistenza fino al 1948! mi sono venuti dei dubbi, senza dimenticare i due autori: il Maiocchi che si attribuisce una miriade di azioni partigiane senza naturalmente fornire alcuna documentazione, e poi il Leoni noto per aver scritto la tesi di laurea sulla figura del fascista Ezio Maria Gray e un libro “Fascisti, partigiani, repubblichini nel castanese – la seconda linea gotica”.

Un libro, quello presentato, che nel descrivere molti fatti già ben conosciuti e documentati in molti libri scritti da studiosi della Resistenza si sottolinea che la “Resistenza fu Guerra Civile”, che “dopo la Liberazione ci fu una mattanza, non solo di fascisti ma anche di partigiani non comunisti”. Si parla di partigiani e repubblichini “animati da un odio viscerale tale che, cambiato di pelle, è ancora presente nella lotta politica dei nostri giorni”.

Si accusa i partiti della sinistra storica di aver “dato un’interpretazione monumentale della Resistenza impedendo un’analisi storica e i distinguo tra i due antifascismi in campo: liberaldemocratico e comunista”.

Nel dopoguerra si ritorna a parlare delle “stragi rosse” e non manca l’argomento foibe senza minimamente parlare dei crimini fascisti in Jugoslavia durante tutto il periodo della loro dominazione.

Nella bibliografia, si accreditano le falsità di un Pisanò e naturalmente del Pansa.

Il libro in questione si inserisce nel filone del revisionismo storico e che non ha nulla da insegnarci.

Senza dilungarmi oltre chi vuole conoscere la storia, quella vera e non romanzata o usata in senso anticomunista non ha bisogno di questi libri (stampati e sponsorizzati dalla Fondazione dell’industriale Canziani e distribuiti gratuitamente a tutti), basta andare presso gli Istituti Storici o alla Casa della Resistenza.

Personalmente sono intervenuto durante la serata di presentazione contestando l’impostazione, il contenuto antistorico e le finalità dell’operazione, intervento che ha riscosso il sostegno dei compagni delle sezioni ANPI presenti. Va pure ricordato che i due autori, volutamente, non hanno invitato l’ANPI!

Con questa breve nota ho sentito il dovere di segnalare ai compagni antifascisti contenuti e finalità dell’operazione e naturalmente l’inutilità dell’acquisto (c’è chi lo sta proponendo a 25 euro!).



Piero Beldì

Associazione Culturale Stella Alpina