Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (Antonio Gramsci)

venerdì 23 gennaio 2015

Come si fabbrica un terrorista

Alba del 17 settembre del 2000, un automobile della polizia allertata da un vicino, intercetta un furgone che risale la rampa di un garage. Gli agenti intimano l'alt, ma il mezzo prosegue la sua corsa e, incurante di un primo colpo esploso, si dirige contro l'auto della polizia che tenta di sbarrargli la strada.
La polizia spara ancora: tre colpi, poi altri due. Questa volta il furgone si ferma, Ali Rezgui, 19 anni, alla guida del veicolo, è morto sul colpo, sventrato dai proiettili. 
Il complice che gli era seduto accanto riesce a dileguarsi, mentre un terzo è intrappolato all'interno del mezzo, tra le moto rubate. È il diciottenne Amedy Coulibaly, che in un solo attimo ha perduto il suo miglior amico e la libertà.
La notizia non passa sotto silenzio a Grigny, la cittadina dove abitavano i ragazzi: municipio di 27.000 abitanti, comunista da sempre, alle porte di Parigi.
Non si può morire per il furto di un paio di motociclette, roba da 4 mesi di galera, e la polizia avrebbe ben potuto mirare alle ruote del veicolo e non alla pancia di un ragazzo.
L'ira di amici e coetanei esplode e per più notti la polizia deve fronteggiare un riot come si deve.
Ma  Amedy Coulibaly non partecipa al collettivo rito liberatorio, è al suo primo arresto. Ce ne saranno altri.

Settembre 2000, scontri a Grigny
C'è, naturalmente un'inchiesta, che viene regolarmente archiviata un paio di settimane dopo. Coulibaly non è convocato come testimone, bastano i poliziotti a testimoniare sul loro stesso operato.
Molti anni dopo, quando Hayat Boumedienne gli chiederà di farle conoscere i suoi amici, le risponderà che ne ha uno solo, Ali Rezgui.
A vent'anni, malgrado una carriera scolastica accettabile, Coulibaly è uno spostato e nell'età in cui molti dei suoi coetanei di quartiere tentano di mettere la testa a posto, lui alterna la scuola alle rapine.
Dopo una banca di Orleans, rapina due bar di fila a Parigi, ma la doppietta è eccessivamente ardita e Amedy si ritrova a passare sei anni a Fleury-Mèrogis.
 Amedy Coulibaly  nel carcere di  Fleury-Mèrogis
Qui, insieme ad altri quattro detenuti, introdotte clandestinamente due microcineprese, filma per mesi, all'insaputa degli altri carcerati e delle guardie, ciò che avviene nel più grande penitenziario d'Europa. Un crudo documento di denuncia di violenze, carenze igieniche e alimentari e del dominio della legge del più forte.
In quest'ambito concede un'intervista, rigorosamente anonima, a Le Monde.
È lucidamente critico sul sistema carcerario (La prison, c'est la putain de meilleure école de la criminalité) ma lui non è un inerme, ha interiorizzato la loi du fort e sa farsi rispettare. 
All'inizio, quando sono arrivato, mi sono detto, mollo tutto. Ma il tempo passa e adesso dico che me ne fotto di tutto, sono loro che mi hanno fatto sclerare. Come pretendete di insegnare la giustizia con l'ingiustizia?  
Così passa il tempo mantenendosi in forma fisica e giocando con la play station e tra le sbarre impara a fare il boss, facendosi beffe dei secondini, che non riescono mai a prenderlo in castagna con un telefonino abusivo o una dose di droga.
Quelli, allora, gli sequestrano la play station, e non gliela ridaranno più, aggiungendo rabbia alla rabbia (Ils avaient pas le droit. Je l'avais payée 320 euros...).
Chissà se Coulibaly abbia mai accarezzato il progetto di riciclarsi come giornalista. Certo è che quei filmati li cede alla fin fine, e per un buon prezzo a France 2.
Bisogna avere delle riserve, quanto meno per pagare gli avvocati, spiega.
In quel tempo, siamo nel 2005, l'Islam non ha un gran posto nelle sue fantasie, dominate dall'ossessione dei soldi. Le fric, le fric, le fric. Se avessi voluto darne una definizione, avrei utilizzato queste parole - dice uno dei suoi amici - dell'Islam, invece, non ne parlava mai.
Ma la grana, le fric, segna il confine tra chi ha il potere e chi non ce l'ha. La prospettiva di passare la vita in fabbrica, come suo padre, non lo esalta.
Presto anche questo sembra acqua passata: ho fatto una virata di 180° -  spiega alla polizia che lo sospetta di  aver partecipato al tentativo di evasione di Ali Belkacem, autore degli attentati alla RER del '95 - non voglio prendermi una pallottola in testa, come capita a chi non sa dire basta.
E in fabbrica, dopo tutto, ci va, fa il magazziniere alla Coca Cola, 2000/2200 euro al mese, e si è anche sposato, sia pure solo religiosamente, con Hayat Boumedienne, carina, sei anni più giovane.
Il resto è cronaca, sia pure confusa: una conversione all'integralismo e l'avvicinamento alle frange estremiste, tutto sotto lo sguardo vigile, ma assolutamente impotente, delle autorità.

Ma evidentemente, in questa storia manca un passaggio, quello che spiega la trasformazione di un giovane deciso, senza farne alcun mistero, alla carriera criminale (i soldi per pagare gli avvocati...) nel kamikaze islamista che occulta i suoi propositi nella finzione (ho fatto una virata di 180°...).
È un passaggio non da poco perché ipotizza la trasformazione di una personalità istrionica in una personalità paranoide. (salvo tornare, nel gran finale. alla condizione di partenza).
Naturalmente non sappiamo proprio tutto della vita di Amedy e quindi è difficile tentare una spiegazione, ma possiamo provarci con il poco che abbiamo.
Amedy cresce in una banlieue operaia. Le sue prospettive sociali sono, al meglio, fare la vita di suo padre e entrare in fabbrica.
Ma non è suo padre, né soggettivamente, né oggettivamente. Non è, come suo padre, un emigrato dal Mali, ma un ragazzo nato e cresciuto in Francia e a differenza di suo padre, non vivrebbe la condizione operaia nella prospettiva di riscatto sociale sottesa dalla società classista del 900, ma in quella marginalizzante della società individualista del XXI secolo.
La società dei liberi e uguali ha una logica disgiuntiva: o dentro o fuori, o successo o fallimento, o sommerso o salvato. Il ruolo coincide con lo status, le fric.
E alla grana punta, quando ancora va a scuola e modesti grisbì bastano ad attenuare le differenze coi figli di papà.
È in quell'età a cavallo dell'infanzia, in cui ci si sente onnipotenti ed immortali.
Entra crudelmente nell'età adulta quel 17 settembre e scopre che la realtà, a differenza dei videogiochi, non concede vite di riserva.
Le sbarre di Fleury-Mèrogis inghiottiranno anche l'onnipotenza.
Ma qui, forse inconsapevolmente, si inventa un mestiere e produce un documentario che in America avrebbe ottenuto il Pulitzer.
Logico che a questo punto abbia ambito far qualcos'altro, piuttosto che il ladruncolo, avendone dimostrato le capacità. Forse avrà sperato in un'offerta, anzi, l'avrà data per certa.
Ma le corporazioni sono caste chiuse, per il suo lavoro gli offrono quattro soldi, che a lui sembrano tanti.
Aveva cercato soldi, gli hanno dato la galera, voleva un ruolo gli hanno dato soldi.
Accetta, ma con rabbia, reagendo come i bambini bocciati a scuola che, per difendere il proprio io, fingono di infischiarsene dell'istituzione che li rifiuta.
Ma è intelligente e la galera è stata per lui un università, ormai sa benissimo che non è con le rapine che  può cambiare la propria vita. Sa che il rapinatore è il proletario del crimine e che anche in quel mondo infero comandano gli stessi padroni dell'altro.
Le fauci della marginalità, del tirare a campare, a cui aveva cercato di sottrarsi, sacrificando il miglior amico e anni di giovinezza, tornano a spalancarsi per inghiottirlo.
Gli è rimasta solo l'identità: nero e islamico. E a quella si appiglia.
Del resto anche questo gli hanno insegnato, che le uniche identità collettive in cui puoi sentirti meno debole, meno solo e meno inutile sono quelle delle appartenenze di genere e specie. 
Il resto è facile da indovinarsi, l'identificazione (ma sarà una novità?) con la prospettiva di un riscatto che può essere solo ultramondano, il rifiuto totale dei valori di una società che lo ha escluso, la certezza di non aver debiti con la Francia.
Dall'esordio del settembre 2000, al gran finale del gennaio 2015, la personalità di Coulibaly non subisce trasformazioni. Non è  né istrionica, né paranoide, ma quella di un ragazzo sensibile, orgoglioso e ferito.

giovedì 8 gennaio 2015

Un altro libro revisionista e antistorico

Nel mese di novembre ho partecipato a Robecchetto con Induno alla presentazione di un libro dal titolo: “SU QUELLA CHE FU LA RESISTENZA (1943-1948) partigiani e patrioti” i cui autori erano Giuseppe Leoni e Alessandro Maiocchi.

Già dal periodo in cui viene collocata la Resistenza fino al 1948! mi sono venuti dei dubbi, senza dimenticare i due autori: il Maiocchi che si attribuisce una miriade di azioni partigiane senza naturalmente fornire alcuna documentazione, e poi il Leoni noto per aver scritto la tesi di laurea sulla figura del fascista Ezio Maria Gray e un libro “Fascisti, partigiani, repubblichini nel castanese – la seconda linea gotica”.

Un libro, quello presentato, che nel descrivere molti fatti già ben conosciuti e documentati in molti libri scritti da studiosi della Resistenza si sottolinea che la “Resistenza fu Guerra Civile”, che “dopo la Liberazione ci fu una mattanza, non solo di fascisti ma anche di partigiani non comunisti”. Si parla di partigiani e repubblichini “animati da un odio viscerale tale che, cambiato di pelle, è ancora presente nella lotta politica dei nostri giorni”.

Si accusa i partiti della sinistra storica di aver “dato un’interpretazione monumentale della Resistenza impedendo un’analisi storica e i distinguo tra i due antifascismi in campo: liberaldemocratico e comunista”.

Nel dopoguerra si ritorna a parlare delle “stragi rosse” e non manca l’argomento foibe senza minimamente parlare dei crimini fascisti in Jugoslavia durante tutto il periodo della loro dominazione.

Nella bibliografia, si accreditano le falsità di un Pisanò e naturalmente del Pansa.

Il libro in questione si inserisce nel filone del revisionismo storico e che non ha nulla da insegnarci.

Senza dilungarmi oltre chi vuole conoscere la storia, quella vera e non romanzata o usata in senso anticomunista non ha bisogno di questi libri (stampati e sponsorizzati dalla Fondazione dell’industriale Canziani e distribuiti gratuitamente a tutti), basta andare presso gli Istituti Storici o alla Casa della Resistenza.

Personalmente sono intervenuto durante la serata di presentazione contestando l’impostazione, il contenuto antistorico e le finalità dell’operazione, intervento che ha riscosso il sostegno dei compagni delle sezioni ANPI presenti. Va pure ricordato che i due autori, volutamente, non hanno invitato l’ANPI!

Con questa breve nota ho sentito il dovere di segnalare ai compagni antifascisti contenuti e finalità dell’operazione e naturalmente l’inutilità dell’acquisto (c’è chi lo sta proponendo a 25 euro!).



Piero Beldì

Associazione Culturale Stella Alpina