[Commemorazione Anniversario della Liberazione. Castelletto Ticino (NO), 25 aprile 2010]
Compagne, compagni, amiche ed amici,
Compagne, compagni, amiche ed amici,
eccoci ancora una volta a festeggiare il 25 aprile, festa di popolo che celebra una vittoria di popolo.
Ho detto, come avete sentito, festa di popolo, vittoria di popolo e non del popolo. Perché, mentre nel primo caso non è possibile aggiungere degli aggettivi, nel secondo diventa quasi naturale completare l’espressione: vittoria, festa del popolo … italiano.
E anche così non ci sarebbe niente di sbagliato se non fosse che, da molto, da troppo tempo si sentono levare voci interessate che suggeriscono di trasformare questa bella giornata del 25 aprile proprio nella festa di quello che viene chiamato tutto il popolo italiano, in ciò comprendendo, naturalmente vincitori e vinti, repubblichini e partigiani, antifascisti e fascisti.
Circola un’ansia torbida e sospetta di pacificazione sostenuta da un pensiero arrogante e revanscista. Ascoltate bene certi discorsi, non ci chiedono, come sarebbe pur comprensibile, di dimenticare i torti, pretendono di cancellare le ragioni di una lotta.
Cosa c’è dietro a questa ignobile operazione di falsificazione storica basata su un relativismo da barzelletta?
Da una parte, evidentemente, c’è la necessità di nobilitare il retroterra ideologico e culturale di una parte della compagine di governo.
Come nei peggiori romanzi d’appendice - e nelle telenovelas - quando il principe di sangue reale si innamora di una ballerina di umili origini. si viene sempre a scoprire che lei era in realtà una duchessa, a suo tempo abbandonata in fasce, per una serie di circostanze disgraziate, così adesso si deve scoprire che certi ministri e sottosegretari sono da sempre dei democratici genuini, a suo tempo abbandonati in fascio per una serie di circostanze disgraziate.
Ma c’è anche un’altra e più pericolosa intenzione: equiparare le ragioni della lotta antifascista alle supposte ragioni dell’adesione alla repubblica di Salò, serve, in realtà a privare di senso la Costituzione, a sterilizzarla, a stravolgerla, a cambiarla.
Perché,checché si dica, la guerra non l’hanno vinta tutti, hanno vinto i partigiani.
E qui la parola ci soccorre: partigiano vuol dire chi sta da una parte, non dall’altra.
Ha vinto una parte contro l’altra. Questo è bene ricordarlo, come occorre ricordare sempre, a chi vuole una rivincita, che siamo pronti a giocare la partita di ritorno con le stesse modalità di quella d’andata.
La nostra Costituzione è il frutto di quella vittoria di parte, in essa ci sono tutti gli anticorpi suscitati da un ventennio di dittatura fascista. Nella nostra costituzione tutti i poteri forti, politici, giuridici e finanziari, sono giustamente tenuti sotto controllo quel tanto che basta affinché non diventino così forti da suscitare l’ambizione e le condizioni di realizzazione di un potere unico.
Nelle intenzioni dei Costituenti, dunque, la nostra bella Costituzione doveva essere una vaccinazione permanente contro il fascismo.
Contro questa intenzione ci si muove adesso lungo due versanti:
da una parte considerare il problema superato, come se il fascismo fosse un surgelato con data di scadenza;
dall’altra – come si è detto – affermare che le ragioni che furono alla base delle scelte della Costituente non erano, a ben vedere, molto fondate, che erano equivalenti e intercambiabili con quelle che animarono gli aguzzini delle Ardeatine, di Marzabotto, di Boves, di S. Anna di Stazzema … e l’elenco sarebbe lungo.
È dunque un’operazione che vuole riscrivere il passato per disegnare un futuro che meglio si presti alle ambizioni di qualcuno e alle necessità di qualcun altro.
Il bello è che questa impresa diretta contro la volontà popolare di allora sarà condotta appellandosi alla volontà del popolo di oggi.
Ma quando oggi si parla di popolo, lo si infila nei nomi dei partiti e magari se ne invoca il suffragio come viatico per porsi al di sopra della legge, si parla proprio dello stesso popolo che ha combattuto e vinto il fascismo?
Si parla ancora della stessa cosa, cambiata solo per effetto del tempo, o di una cosa differente?
Eccoci allora tornati all’inizio di questo discorso.
Il senso comune ci avverte che il significato di questa parola è un po’ ambiguo, infatti se diciamo che il calcio è uno sport popolare, vogliamo dire che piace un po’ a tutti, anche a Berlusconi. Ma se parliamo di una casa popolare, non parliamo senz’altro di una delle ville di Berlusconi.
La distanza tra i significati che diamo a questa parola è quindi grande, possiamo fare due esempi in cui alla distanza di significato corrisponde anche una distanza di tempo che coincide, guarda caso, con i confini temporali della storia di cui siamo qui a celebrare l’epilogo.
Il Popolo d’Italia, si chiamava infatti il giornale di Mussolini, mentre Piazza del Popolo è il nome che viene dato, dopo il referendum, alla grande piazza di Roma precedentemente intitolata a Vittorio Emanuele.
Cosa si intende?
Il Popolo d’Italia, si chiamava infatti il giornale di Mussolini, mentre Piazza del Popolo è il nome che viene dato, dopo il referendum, alla grande piazza di Roma precedentemente intitolata a Vittorio Emanuele.
Cosa si intende?
Il popolo a cui Mussolini intitola il suo giornale è quello che di lì a poco vestirà il grigioverde per sparare a popoli vestiti di un altro colore. È un popolo che comprende braccianti e studenti, operai e professionisti, poveri e ricchi, comprende tutti quelli che sono nati in terra d’Italia, nelle cui vene scorre sangue italiano.
Ecco qui che saltano fuori la terra e il sangue, il binomio su cui il nazismo fonderà la sua teoria di sopraffazione, un fantasma inquietante che oggi in Europa certe forze politiche tornano irresponsabilmente ad evocare.
Un binomio che in realtà non significa niente, perché quella terra, che il bracciante difende sul Carso e sul Piave, sarà sua solo per quell’occasione e dopo la smobilitazione tornerà ad essere, come è sempre stata, del padrone. E anche quel sangue che si versa a fiumi non è diverso da quello che versano nella trincea opposta l’austriaco e il tedesco.
In effetti il popolo così inteso si può definire, oggi come ieri, solo in negativo, solo in rapporto all’ altro, allo straniero, al diverso che è sempre una minaccia potenziale, è sempre un possibile nemico.
Anche quando magari viene solo a cercare il lavoro o la libertà o la pace che gli sono negate in patria.
Diverso è il popolo che dà il nome alla grande piazza di Roma: è il popolo che ha appena liquidato i Savoia , è il popolo che l’anno prima in un'altra grande piazza di Milano, piazzale Loreto, ha chiuso adeguatamente e inesorabilmente il conto con la classe dirigente fascista. (E ho detto adeguatamente, perché non ho lo stomaco delicato di Giampaolo Pansa e di altri consimili anime belle).
Non si parla più quindi di tutti gli italiani, eppure si parla a buon diritto di popolo.
Qui per popolo non si intende più il tutto, ma solo una parte, la parte che si contrappone alla classe dirigente, quella classe dirigente che aveva finanziato e portato al potere il fascismo.
In piazza Loreto c’è l’operaio della Montecatini, col mitra a tracolla, mentre il padrone della Montecatini, Guido Donegani, è in galera.
Ecco allora un altro significato della parola popolo: non tutti, ma una parte, la parte che ha sempre avuto di meno: meno benessere, meno istruzione, meno cure, meno dignità, meno di tutto.
È questo popolo il vero custode degli ideali della Resistenza, non l’altro, il calderone indistinto di elementi eterogenei e indefinibili: gli individui, la gente, la società civile, l' uomo qualunque: termini approssimativi che servono per mettere sullo stesso piano chi non ha niente e chi ha tutto.
Ma il popolo, e intendiamo quello vero, esiste ancora e a quel popolo dobbiamo fare appello perché sia vigile e pronto a difendere il lascito concreto della Resistenza: quella Costituzione che prevede forze sociali, e non l’inerme individuo, a far da contrappeso ai poteri forti.
Perché se questo equilibrio dovesse venir meno, allora – anche magari mantenendo le forme della democrazia – ci sarebbe comunque una dittatura. La dittatura del più forte.
Non sempre però il popolo ha le idee chiare, non sempre è unito, specie nei momenti di grande crisi.
Racconta Manzoni che, recandosi il povero Renzo dall’avvocato Azzeccagarbugli, gli portasse in dono, tenendoli per le zampe, quattro capponi. Sballottolate dal viaggio, le povere bestie, ognuna convinta che la causa del proprio disagio fosse imputabile al vicino, reagivano beccandosi l’un l’altra sulla testa. Come troppo spesso sogliono fare i compagni di sventura, conclude Manzoni.
È esattamente la situazione di oggi.
Ma a questa situazione non dobbiamo rassegnarci. Dobbiamo reagire non con il mugugno, ma con l’impegno.
Cominciamo, intanto, col toglierci dalla testa che la militanza democratica si esaurisca nel guardare con regolarità Ballarò o Anno Zero e nel andare periodicamente a votare, più o meno bene. Ci vuole ben altro.
Bisogna tornare a riorganizzarci collettivamente per andare davanti alle fabbriche e alle scuole, nei mercati rionali, nei circoli, a spiegare, a discutere, a informare.
Perché molti di coloro che gridano padroni a casa nostra in realtà sono poveracci che poi faticano a pagare un affitto per avercela davvero, una casa. E allora che si sveglino! Che capiscano chi è davvero il loro avversario!
Così come molti di quelli che bofonchiano contro Roma ladrona, le tasse già non le pagano, le evadono o le eludono o comunque preferirebbero non pagarle perché si possono permettere scuola, sanità, trasporti e addirittura la polizia privata.
Agli uni e agli altri dobbiamo ricordare che la Costituzione afferma sia il diritto di vivere dignitosamente del lavoro sia il dovere di contribuire al bene comune proporzionalmente ai propri redditi. E che una cosa non funziona senza l’altra.
Dobbiamo quindi bandire quello spirito rinunciatario che aleggia tra di noi e convincerci e convincere che la difesa della democrazia coincide con la difesa dei più deboli e cioè con una più puntuale realizzazione della Costituzione, non con il suo smantellamento.
Solo così si mantiene vivo oggi lo spirito di quanti allora lottarono, penarono, caddero nella guerra di Liberazione.
Nel concludere mi rivolgo ai più giovani, perché a loro dobbiamo passare il testimone di un impegno che, come diceva Giancarlo Paietta, viene da lontano e vuole andar lontano.
A tutti, quindi, ma a loro in special modo, voglio consegnare quella parola d’ordine che già fu nostra quando avevamo la loro età, in un momento esaltante, ma anche tragico, della nostra storia recente, quando di fronte all’imperiosa e per certi versi incontenibile domanda di rinnovamento che veniva dal basso, nei salotti buoni della borghesia italiana non si trovò di meglio che richiamare in servizio la manovalanza nera e a noi toccò rintuzzarne la boria nelle scuole, nei posti di lavoro e nelle piazze.
Lasciamoci dunque non ripetendo una sterile formula rituale, ma affermando la concreta assunzione di un impegno fattivo e costante: ora e sempre Resistenza