Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (Antonio Gramsci)

giovedì 27 dicembre 2012

Intervista a Maurizio Landini


«Arcaico è chi ha riportato i diritti dei lavoratori a livelli ottocenteschi»
Come risponde a Monti che nella conferenza di fine anno ha dichiarato che la Cgil è una forza che difende posizioni “nobilmente arcaiche ”?’
Trovo che se si vuole essere moderni bisognerebbe fare una legge sulla rappresentanza, cosa che il governo Monti si è ben guardato dal fare. Considero che il fatto che i lavoratori non possano votare i loro accordi e non possano scegliersi i propri sindacati sia effettivamente arcaico, significa non avere applicato dopo sessant’anni la nostra Costituzione. Oggi questa cosa serve a chi vuole cancellare il contratto nazionale di lavoro e i diritti. Inviterei Monti a farsi un giro per le fabbriche, e non quando sono imbandite a festa ma quando realmente funzionano, e si accorgerebbe che stiamo tornando indietro, verso l’Ottocento, per le condizioni di vita e di lavoro delle persone.
Un bilancio negativo insomma
Penso che i provvedimenti presi sulle pensioni e sul mercato del lavoro siano le cose peggiori e più vecchie che si possano fare. La modernità e l’innovazione sarebbero quelle di applicare la nostra Costituzione, sia nel campo delle libertà che nel campo economico e politico. La democrazia e la sua estensione è la cosa più moderna che c’è. Mentre oggi c’è poca democrazia ed è negata soprattutto nei luoghi di lavoro.
Una cosa buona di questo governo dimissionario?
L’unica cosa positiva fatta è stato ridare credibilità a questo paese dopo il governo Berlusconi. Chiunque avesse sostituito Berlusconi avrebbe recuperato la credibilità. Sul piano internazionale e europeo c’è stato un netto miglioramento. Io apprezzo anche le scelte che in queste ore sta facendo Monti. Un elemento di chiarezza nella politica. Se c’è un punto che deve essere superato è l’ambiguità. Andare a Melfi a dire che Marchionne è un bravo imprenditore, dire alle forze politiche di sostenere il suo progetto anche se non si candida è senz’altro un elemento di chiarezza che fa emergere una certa posizione e una certa visione. E la politica è questo. Mi auguro che le forze politiche che vogliono governare questo paese in maniera alternativa dicano quello che vogliono fare. Rischiamo che il sistema industriale di questo paese salti. Non solo il settore auto, ma anche quello siderurgico, la cantieristica, il settore elettrodomestico. Non c’è stata una politica industriale degna di questo nome. Pensare che per competere si riducano i diritti e i salari e si estenda la precarietà e i licenziamenti non è assolutamente la strada che può portare fuori dalla crisi. Sono altre le scelte che devono essere fatte. Anche sull’Europa: non può essere un’unione basata solo sulla moneta ma anche un’unione sociale. Non mi pare che il governo Monti abbia brillato in novità. Bisogna rimettere al centro lavoro e democrazia. La Fiat sta violando leggi e principi della nostra Costituzione. Primo punto: chiunque voglia candidarsi a guida dovrebbe rispondere se vogliono applicare i principi di fondo della nostra costituzione.
Al di là degli auspici pensa che possa esserci un cambiamento di sostanza? Si possono ribaltare certi atteggiamenti?
Devono essere affrontati questi temi. Altrimenti l’arretramento progressivo è inevitabile. Il nuovo governo si deve porre il problema di un intervento pubblico nell’economia. Da questa situazione non si esce senza un piano straordinario degli investimenti pubblici e privati. E entrambi sono diminuiti. La siderurgia è un nodo fondamentale. La banda larga e la mobilità sono altri nodi strategici, visto il ritardo tecnologico. Poi le energie rinnovabili. Serve una giustizia sociale che oggi non c’è. Combattere il fisco significa redistribuire a chi in questi anni ha pagato. Significa fare una patrimoniale che è anche una lotta alla malavita organizzata che controlla parte dell’economia reale. Serve investire sulla ricerca e sulla scuola pubblica e rendere la macchina meno burocratica. E sul piano sociale e sindacale serve una legge sulla rappresentanza. In questi ultimi tre-quattro anni abbiamo assistito a contratti separati. Nessuno ha una bacchetta magica ma c’è un battaglia da fare per superare la precarietà. Bisogna cambiare l’agenda di questo paese visto che Monti la propone per il governo futuro. Mi auguro che durante la campagna elettorale i contendenti chiariscano che cosa intendono fare per il paese a livello industriale e lavorativo e democratico. In questo paese non mancano i soldi, ma manca un sistema di redistribuzione. Queste sono le scelte che dovrebbero avere la priorità in un momento di rischio di chiusura e la crisi. Noi come Fiom non volevamo sostituirci alla politica, ma dirle che c’era un problema di rappresentare gli interessi delle persone che lavorano e dei giovani.
Non le seccano un po’ parole come conservazione e arcaicità?
È un periodo in cui le parole rischiano di perdere il loro significato. Noi abbiamo fatto una battaglia moderata. Noi stiamo difendendo la nostra Costituzione. Sinceramente se uno mi dice che per difendere la costituzione sono un conservatore allora si, lo sono. Non è mai stata applicata in sessant’anni di vita che ha. Se l’innovazione sarebbe Marchionne, come il presidente Monti ha voluto rimarcare, vorrei far notare a tutti che queste politiche sono state fatte negli Stati Uniti tanti anni fa. Il mercato decide tutto. Ci sono tanti singoli lavoratori in lotta fra di loro. Se la modernità è chiudere stabilimenti e spostare la produzione in altri paesi allora non so cosa voglia dire questa parola. Non mi pare che quello fatto dalla Fiat in questi due anni sia da conservare. È un modo antico di guardare le cose. Monti invece di farci entrare nel 2000 rischia di farci tornare all’ottocento.
www.controlacrisi.org – 24.12.12

martedì 25 dicembre 2012

sfratto




Il Centro Frantz Fanon cessa la propria attività presso l’ASL TO 1 a partire dal 15 gennaio 2013



Il Centro Frantz Fanon, da oltre dieci anni ospite dell’ASL TO 1 (ex  ASL 2) grazie a una convenzione per l’uso dei suoi locali, e dal settembre 2009 operante all’interno degli accordi stabiliti da una gara d’appalto per le attività cliniche e di mediazione culturale rivolte alla popolazione immigrata, ha appreso che dal 15 gennaio 2013 cessa il contratto d’affitto fra l’ASL e il proprietario dei locali dove attualmente il Centro opera.
Se per gli altri Servizi ubicati nella stessa sede – Centro diurno e Gruppo Residenze del Dipartimento di Salute Mentale – sono state previste, a fatica, soluzione alternative, nessuna indicazione è stata invece proposta per spostare in altra sede ASL le attività del Centro Frantz Fanon (Servizio di counselling, psicoterapia e supporto psicosociale per gli immigrati, i rifugiati e le vittime di tortura). Ciò significa che entro quella data dovremmo traslocare ‘senza destinazione’, non potendo più continuare le nostre attività all’interno dell’ASL TO1.
Alle ripetute richieste di poter continuare a svolgere il nostro lavoro presso altri locali di quest’ultima, alle sollecitazioni inoltrate dal Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ai Dirigenti aziendali,nessuna risposta è pervenuta sino ad oggi dai vertici dell’Azienda, a meno di qualche settimana dall’obbligo di abbandonare i locali. L’unica comunicazione che indirettamente concerne anche il Centro Fanon è pervenuta via e-mail ad operatori le cui attività sono realizzate nello stesso stabile:

«Dottoressa,
Le rammento che la disdetta del contratto di via Vassalli Eandi 18 è già operativa pertanto l'immobile dovrà essere completamente libero dal 15 gennaio 2013 per procedere alla consegna
Cordialmente»

250 pazienti (adulti, minori, nuclei famigliari seguiti nel corso del 2012 e al momento in carico presso il Centro Fanon), molti dei quali affetti da gravi patologie, non potranno più essere seguiti dal nostro gruppo di lavoro, la cui esperienza, prima ed unica in Italia, è stata oggetto in questi anni di apprezzamenti e riconoscimenti nazionali e internazionali. Lo ricordiamo senza alcuna presunzione, ma solo per dire dell’indifferenza e della miopia delle istituzioni al cospetto delle risorse esistenti e dei bisogni di cura dei cittadini stranieri: un’altra espressione della violenza delle istituzioni e dei loro dispositivi burocratici.

L’ASL si è mostrata sorda alle nostre richieste: la “continuità terapeutica”, valore sbandierato in tanti documenti e discorsi sino alla nausea, sembra improvvisamente diventare un concetto superfluo quando i Signori dell’Azienda devono operare i loro tagli, e quando i pazienti sono semplici immigrati.
Tutto, ancora una volta, sembra essere fatto in nome del nuovo dogma politico-economico di cui un capitalismo perverso e criminale non smette di invocare l’esigenza: ridurre i costi della spesa pubblica.
In un vortice che si abbatte indifferentemente e ciecamente su rami secchi (molti dei quali, per altro, continueranno a riprodursi grazie a privilegi intoccabili) e centri d’eccellenza, a pagare il prezzo più alto saranno ancora una volta i più vulnerabili: coloro che meno di altri hanno accesso alle risorse pubbliche, coloro la cui sofferenza rimane spesso invisibile.
È il momento, tuttavia, di dire (di ripetere) qualcosa intorno alla logica di questi tagli, una logica che non è mai oggettiva né, come ipocritamente si sostiene, efficace nel ridurre sprechi e distorsioni.
Il costo dell’attuale convenzione fra l’ASL TO1 e l’Associazione Frantz Fanon è, per anno, meno di 65.000 euro. Il gruppo di lavoro è composto di circa 15 operatori (psicoterapeuti, medici, psichiatri, psicologi, mediatori culturali, educatori).
Si tratta di un costo irrisorio se si considera il lavoro realizzato dal Centro Frantz Fanon: nel corso di questi anni abbiamo potuto seguire oltre 1600 pazienti anche perché buona parte del lavoro svolto è stato realizzato in modo volontario o ricorrendo ad altre sorgenti di finanziamento. Si tratta però di un costo, quello del Centro Fanon, irrilevante in particolare se lo si confronta con altre tipologie di spesa: quella, ad esempio, relativa ai costi per il ricovero annuo di un solo paziente (!) presso una comunità psichiatrica, e certo irrilevante anche se misurato con quello di altre spese di un’Azienda Sanitaria.
È tuttavia evidente che questi dati non bastano a sostenere la nostra esperienza né l’urgenza di un intervento specialistico rivolto a vittime di tortura, rifugiati, richiedenti asilo, a coloro che non troverebbero al momento in altri servizi dell’ASL analoghe risorse terapeutiche.
Non ne siamo affatto sorpresi, tutt’altro, e ciò per almeno due motivi, il primo inesorabilmente contingente e miserabile, il secondo più complesso.
Il primo: non c’è da stupirsi che un’azienda sanitaria operante in una Regione il cui Governatore appartiene a un partito come la Lega Nord sia del tutto indifferente ai problemi posti dalla sofferenza della popolazione immigrata. Garantire un lavoro clinico complesso all’altezza della loro domanda di cura non è certo una preoccupazione per un gruppo politico che ha offeso ripetutamente la condizione degli immigrati, approvando nel precedente governo una legge che infrange i più elementari diritti umani (l’istituzione dei CIE), giungendo a privare per un periodo che può durare sino a diciotto mesi della propria libertà donne e uomini che hanno commesso la sola colpa di sognare un destino migliore o che, più drammaticamente, hanno voluto sottrarsi alla morte e alla violenza.
Coloro che sono interessati a riprodurre il proprio potere nei meandri di un potere cieco e indifferente ai bisogni reali, coloro che rappresentano l’Altro solo nei termini di un disprezzo sistematico se non razzista, non possono essere certo interlocutori di un simile progetto.
Ma c’è un altro motivo, si è detto, che rende tutto sommato prevedibile il silenzio di un’ASL.
Ogni qualvolta si chiede conto delle loro scelte, si risponde sempre che queste sono motivate, oggettive, “nell’interesse di…”.
Tuttavia l’oggettività, scriveva Fanon ne I dannati della terra, invocata dai giornalisti occidentali quando chiamati a dar conto dei loro giudizi sui comportamenti dei colonizzati, si rovescia sempre implacabilmente e inesorabilmente contro questi ultimi. Possiamo oggi riprendere questo stesso argomento, avendo solo cura di scrivere: contro i dominati, gli immigrati, i marginali. Una classe politica ubriaca del suo potere, sostenuta da un ceto di burocrati pronto a offrire servile il suo arsenale di leggi, circolari e commi, prolifica all’ombra di un’oggettività che finisce per colpire, ormai lo sappiamo, sempre e solo i più deboli.
«L’uomo parla troppo. Occorre insegnargli a riflettere. E per questo occorre fargli paura. Molta paura. Per questo io ho parole-archi, parole-proiettili, parole-coltello». Questo scriveva Fanon in una celebre lettera indirizzata al fratello, testimone delle sue esperienze e dell’ipocrisia e delle contraddizioni che andava scoprendo nell’Europa dei diritti...
Da Fanon abbiamo tratto una lezione di impegno e di coerenza, di coraggio e di indocilità, che non sarà certo messa in discussione dall’indifferenza delle istituzioni né dal razzismo che le abita, spesso mascherato dalla retorica della sicurezza o da quella della razionalità economica.
L’obbedienza non è più una virtù: è questo un altro principio che ha guidato sempre la nostra pratica, sussurrato con forza da don Milani anni addietro quando un altro razzismo si abbatteva contro altri «stranieri», un principio che continua a indicare un percorso che alcuni di noi testardamente continueranno a seguire nel tentativo di realizzare un lavoro rigoroso, al servizio di chi soffre, quale che sia la sua condizione, la sua appartenenza, il suo statuto giuridico. Senza differenze di sorta.
Per fare tutto questo abbiamo però urgentemente bisogno del vostro sostegno. Sì: questa volta si tratta anche di un sostegno materiale, utilizzando le modalità che riterrete più opportune.
Vogliano continuare altrove, già a partire dal mese di gennaio 2013, la nostra esperienza. Vogliano mantenere il Centro Frantz Fanon aperto. I soci dell’Associazione hanno deciso all’unanimità, nell’Assemblea del 17 dicembre 2012, di contribuire a questo progetto donando parte del loro contributo annuo per le attività svolte. Ma questo non sarà sufficiente, nel primo anno, per pagare l’affitto di una sede che possa disporre di un numero minimo di locali e, facilmente accessibile, costituire uno spazio dignitoso per l’accoglienza e la cura degli immigrati.
Stiamo già presentando progetti che prevedano il contributo per l’affitto della sede, ma le risposte – se positive – saranno utilizzabili solo a partire dai prossimi anni. E a noi servono risorse ora.
Per questo, per tutto questo, chiediamo ai numerosi amici e compagni di viaggio che – in Italia e altrove – hanno seguito con interesse la nostra esperienza, chiesto suggerimenti per riprodurla in altri contesti, condiviso con noi riflessioni, iniziative e pratiche innovative, di aiutarci perché il lavoro del Centro Frantz Fanon possa proseguire il proprio cammino come sempre: senza compromessi.

Non siamo mai stati bravi per quanto riguarda la “ricerca fondi”. Non saremo bravi neanche questa volta nel predisporre strategie di marketing e sponsorizzazioni.
Abbiamo pensato a due formule di donazione: ‘amici’ (10 euro) e ‘sostenitori’ (50 euro), ma qualunque altra formula sarà ben accolta!
La donazione può essere fatta sul conto corrente bancario intestato all’Associazione Frantz Fanon:

UNICREDIT, Via Principi d’Acaja 55F, 10138 Torino
IBAN: IT23L0200801118000003061841

Sul sito dell’Associazione (www.associazionefanon.org) vi terremo informati sugli sviluppi.
Grazie sin d’ora, e Buon Anno!


Torino, 24 dicembre 2012

Roberto Beneduce
Responsabile del Centro Frantz Fanon





Tutti i soci dell’Associazione Frantz Fanon:

Lahcen Aalla
Roberto Bertolino
Michela Borile
Nicola De Martini
Walter Dell’Uomini
Ambra Formenti
Stefania Gavin
Simona Gioia
Sara Goria
Simona Imazio
Irene Morra
Anna Chiara Satta
Simone Spensieri
Simona Taliani
Luigi Tavolaccini
Francesco Vacchiano
Alice Visintin
Eleonora Voli

giovedì 20 dicembre 2012

per essere precisi

Conti alla mano, abbiamo constatato che il gettito della sciagurata IMU è servito per salvare il Monte dei Paschi di Siena. 
Il rigore del tecnico Monti è arrivato ormai a colpire i consumi alimentari delle persone, ma continua a premiare la finanza allegra dei suoi colleghi banchieri.
Chiama salvitalia i decreti salvabanche, e c'è chi gli crede.
Questa volta ha salvato MPS.
Non sappiamo se nella fallimentare gestione di Montepaschi ci sia qualche zampino politico, ma se ci dovesse essere, questa volta non si deve guardare a Berlusconi.
Fassino, infatti, è un gran distratto, e di Siena si ricorda solo il panforte. Se no, quel giorno famoso, avrebbe detto: abbiamo un'altra banca!

martedì 18 dicembre 2012

Sunset Boulevard

good by,
nichi.
Allo scambio simbolico – libertà civili al posto di welfare - ci aveva provato per primo Zapatero, e le urne lo hanno pensionato.
Adesso, rimasti a culo nudo per la svolta liberista postelettorale di Hollande, ci provano i socialisti francesi che pensano di far dimenticare il disastro sociale proponendo il matrimonio per tutti e il voto per gli emigrati.
Se questa è la risposta alla crisi, il trionfo di Marine Le Pen nei distretti industriali in smobilitazione è certo.
Da noi, invece, ci proverà Vendola, che si è legato con un accordo capestro ad un Bersani che non vuole cambiare una virgola alla politica sociale di Monti e al modello di relazioni industriali di Marchionne.
Come si è detto, lo scambio non funziona, neanche quando avviene, figuriamoci poi, se di mezzo c'è pure Rosy Bindi.

domenica 16 dicembre 2012

memorial pinelli

Mark Adin intervista  Claudia Pinelli 
dal blog di daniele barbieri

Al citofono suonare Pinelli – di Mark Adin

Ci sono dolori che vanno tenuti stretti come madri, e ricordi che diventano nel tempo tatuaggi. Sono identità, giuramento, prima pietra, sguardo nel buio.
Mi stupisce sempre constatare quanto sia viva quella indissolubilità di fatti: la bomba e il volo di Pino. Immaginare, quasi percepire il rumore dello schianto del corpo, il suono, sordo e spaventoso, della violenza di Stato. Opprime dopo quarantatrè anni esattamente come quei giorni.
Per questo, arrivare davanti a un condominio di Milano, scendere dalla macchina nel vuoto di persone del dopocena metropolitano e cercare sulla pulsantiera del citofono quel nome, Pinelli, attiva un flashback che mi emoziona.
Evito l’ascensore, Claudia è sulla porta ad accogliermi.
Ci siamo scritti alla svelta, ci siamo sentiti telefonicamente una volta soltanto, mai incontrati prima. Quella di Claudia, una delle due figlie di Giuseppe Pinelli, è l’abitazione di una famiglia di impiegati quietamente milanese, così apparentemente simile ad altre. Così simile alla mia.
Rinuncio subito alla scaletta delle domande che mi ero preparato e cerco di seguire, per l’intervista, solo reciproche sensazioni.

<<Durante il fermo di mio padre, che si protrasse ben oltre i limiti di legge – e quindi in stato di palese illegalità che tengo a sottolineare – giunsero a casa nostra alcuni funzionari di polizia per  una perquisizione domiciliare. Frugarono dovunque, aprendo persino i pacchi dei nostri regali, già confezionati in occasione di un Natale che sarebbe arrivato in una decina di giorni. Io e mia sorella Silvia avevamo nove e otto anni. Mia madre tentava di rassicurarci per l’assenza di Pino, che sapevamo essere in questura: “Massì, lo tengono lì per un po’e poi ce lo rimandano a casa… Gli faranno prendere un bello spaghetto, ma poi…” Ma poi non l’avremmo più rivisto>>

Claudia, durante tutto il tempo dell’intervista, chiamerà i suoi genitori Pino e Licia, e mai mamma e papà. A una mia precisa domanda, risponde con la fatica e l’intensità di chi cerca di dominare un proprio fatto emotivo, dice che usa fare così per “proteggersi” dalla sopraffazione affettiva.

<<Li chiamo in questo modo – accenna un sorriso tenerissimo – per… “tenerli a bada”…
Tre notti dopo, era la notte tra il 15 e il 16, Licia ci ha svegliato, a me e mia sorella, e affidato ad amici di famiglia coi quali saremmo poi state per qualche giorno. Non abbiamo neppure partecipato ai funerali. Licia ci ha sempre protetto, sempre.
Cambiammo casa, cambiammo scuola. Frequentavamo la Casa del Sole, un istituto scolastico milanese che garantiva il “tempo pieno”. Ricordo un fotografo che si era intrufolato per fotografarci, noi le figlie di Pino, per rubare una foto. Ma fu l’unico episodio spiacevole. La nostra, in fondo, fu una infanzia relativamente normale. Licia ha sempre fatto da scudo.>>

Siamo seduti entrambi sullo stesso divano: io ad un capo  e lei all’altro. E’ rannicchiata nell’angolo, le braccia conserte e le gambe accavallate. Il compagno e la figlia, una ragazzina bella della sua incontenibile energia, appaiono e scompaiono discretamente, più volte, nella stanza.
Il tema dell’incontro con la famiglia del commissario  Calabresi, voluto da Napolitano, è inevitabile.

<<Perché abbiamo accettato l’invito?>>

Compare Millo, gattone sontuoso e nero.

<<Perché si riparlasse di Pino. E’ stata una scelta di cui sono stata e resto convinta. Qualcuno parlò di riappacificazione – a sproposito – e altri di riabilitazione, ma non sono d’accordo. Pino non aveva bisogno di essere riabilitato per il semplice fatto che non ha mai commesso nulla di illegale, è stato subito scagionato da ogni accusa dagli stessi accusatori. Come si può parlare di riabilitazione? Da che cosa? Può un innocente essere riabilitato? Con quella cerimonia voluta dal Presidente, se mai, è stato sdoganata la sua figura di uomo innocente e “due volte vittima”, come lo stesso Napolitano ha ricordato con parole per noi importanti. Eravamo lì, io e Licia, per avere quel minimo di giustizia possibile, soprattutto per mia madre, per tutto quello che ha passato. E’ stato un vero e proprio atto di giustizia reso a Licia vivente, l’unico!, che certo non risarcisce, ma è stato sicuramente importante. Molti hanno parlato dell’incontro tra noi e i Calabresi come un atto di riappacificazione, ma anche questo è un errore: non c’è mai stata guerra, perché le famiglie non c’entrano, ma non c’è stata nemmeno vicinanza, per lo stesso motivo. Non esiste una sorta di comunanza nello status di vittime, non siamo assimilabili in nulla, non abbiamo costruito alcun rapporto reciproco. Il trattamento riservato a Pino non è certo lo stesso riservato a Calabresi, Pino non lo faranno santo. Diciamo che quel giorno al Quirinale ci è stata restituita, dopo anni, la sensazione di quello che potrebbe essere vivere in uno stato di diritto. >>

Il gatto Millo salta in braccio alla padrona, le si mette al collo e mi guarda. Noto qualche somiglianza tra i due: forse è un senso di naturale indipendenza, forse l’atteggiamento pronto alla difensiva, se mai occorresse.

<<Quel giorno è stato importante anche perché, per la prima volta dopo quarant’anni, abbiamo incontrato i famigliari e alcuni sopravvissuti della strage alla Banca dell’Agricoltura. E con loro  abbiamo iniziato un percorso di testimonianza e di memoria. Si sa: chi ha vissuto quei tempi man mano non ci sarà più, e questo non deve lasciare un vuoto >>

Il compagno di Claudia ha un bel viso giovanile, impreziosito dai capelli bianchi, se ne sta in disparte e la osserva parlare, esprimendo con gli occhi affettuoso sostegno, senza mai intervenire. 

<<Siamo sempre state orgogliose, io e Silvia, forti della forza di Licia. Dovemmo capire tutto, alcune volte solo intuendo. In una situazione del genere, con ciò che per noi comportò, perdi il padre e in un certo senso anche la madre, impegnata a far fronte a ogni tipo di pressione. Non so dire dove Licia abbia trovato la forza, ma ne ha avuta tanta, anche per noi.

La nostra conversazione non segue un percorso, lasciamo che la guidino le emozioni, a ruota libera.

Casa nostra era, da che mi ricordi, un porto di mare. Pino accoglieva, la casa era sempre aperta,  faceva da mangiare lui per tutti. Pino era “ponte” tra i vecchi anarchici e i giovani delle nuove generazioni. Riusciva a tenere insieme due mondi perché li capiva entrambi. Il suo primo incontro con l’anarchismo lo ebbe, ancora bambino, quando per dare una mano in casa trovò un lavoro presso un anarchico che gli diede da leggere i primi libri. Poi fu come una malattia, quella dei libri, casa nostra era piena di libri. Prese a militare nel movimento anarchico: dibattiti, antimilitarismo, non-violenza, il Circolo del Ponte della Ghisolfa, la Croce Nera Anarchica, l’USI e l’anarcosindacalismo…, in una visione del mondo che lo portò in contatto con persone di ambienti e ideologie diverse soprattutto sui temi comuni della non violenza e dell’obiezione di coscienza. Giuseppe Gozzini, primo obiettore di coscienza cattolico in Italia, che per questo finì i galera, in una lettera ai giornali subito dopo la morte di Pino scrive “… lui, ateo, aiutava i cristiani a credere; lui, operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici…” Tanta passione politica di un uomo pacifico, alla luce del sole.
Dopo la tragedia, la violenza ulteriore delle calunnie su Pino, poi qualcosa pian piano cominciò a cambiare, qualcosa di inedito stava prendendo forma. Ricordo che, nel tragitto da casa nostra alla scuola, in pullman, guardando dai finestrini, iniziai a leggere scritte sui muri che dicevano: “Pinelli assassinato, la strage è di stato”. Era la coscienza civile, l’inchiesta, la solidarietà. Era tutto lì da vedere, da leggere sui muri parlanti di Milano. >>

Penso ai miei figli, penso a loro e a come potrebbero affrontare un simile dramma. Come si può spiegare a dei ragazzi un fatto del genere? Come glielo si dice? Claudia sorride:

<<Mia figlia, quella più grande, a sei anni, un giorno ha chiesto a Licia, senza troppi preamboli, in modo diretto come fanno i bambini, senza complessi, come fosse morto il nonno. Licia le disse: “Chiedilo alla mamma” e con lei ho fatto un percorso, anche doloroso, di ricostruzione e di restituzione di quel nonno che non ha potuto conoscere. La più piccola delle mie figlie, per sua stessa iniziativa, elaborò invece una soluzione personalissima, di fantasia: “Mio nonno era partigiano. E’ morto perché c’era la guerra”. Non aveva, in fondo, tutti i torti.>>

E’ difficile, porco demonio, è davvero difficile ascoltare Claudia senza emozionarsi. Ma io devo essere la grondaia e non la pioggia, essere solo il vettore, anche se non è semplice esercitare il distacco.

<<Mi chiedi del film di Giordana (“Romanzo di una strage”, Ndr), immaginavo che l’avresti fatto. L’ho visto e rivisto e man mano le mie perplessità sono aumentate, per come rappresenta gli anarchici, per come emerge la figura di Calabresi, per l’ipotesi finale della doppia bomba…. Avrebbe dovuto essere un film su piazza Fontana ma è risultato un film di difficile comprensione che non mi ha coinvolto emotivamente e per alcune ricostruzioni mi ha fatto arrabbiare…
Devo dire che Giordana si è comportato bene con noi, nei rapporti intercorsi è stato corretto.
Ma il film l’ho trovato troppo incentrato sulla figura di Calabresi, in una lettura che non riesco a condividere.
Oggi leggo che un attore, omonimo del figlio del commissario, Paolo Calabresi, starebbe per interpretare Pino in una fiction televisiva in preparazione. Un Calabresi che interpreta Pinelli…>>

Anch’io non so se questo sia uno sberleffo del destino, e guardo Claudia col suo gatto nero: si è fatto tardi e dobbiamo lasciarci.
Sulla via del ritorno penso che la Storia dovrebbe rifiutare da se stessa le menzogne, ma so che non è così. La verità è fatica, volontà, coraggio, ostinazione, abbiamo la responsabilità e il dovere di testimoniarla per un semplice fatto di necessità: siamo esseri umani, non possiamo certo essere da meno di quei  muri parlanti di Milano.

Mark Adin





Note accessorie.
L’intervista, svoltasi il 10 dicembre 2012 a Milano, è disponibile a chiunque desideri pubblicarla su stampa o web, a condizione che ne conservi forma e interezza e indichi chiaramente il link di questa pagina  e il nome dell’autore.

venerdì 14 dicembre 2012

mostra

 Circolo ARCI di Suno

in collaborazione con:
Comune di Suno
Sezione ANPI Fontaneto
presentano