dal blog di daniele barbieri
Al citofono suonare Pinelli – di Mark Adin
15 dicembre 2012 di DB
Ci sono dolori che vanno tenuti stretti come madri, e ricordi che diventano nel tempo tatuaggi. Sono identità, giuramento, prima pietra, sguardo nel buio.
Mi stupisce sempre constatare quanto sia viva quella indissolubilità di fatti: la bomba e il volo di Pino. Immaginare, quasi percepire il rumore dello schianto del corpo, il suono, sordo e spaventoso, della violenza di Stato. Opprime dopo quarantatrè anni esattamente come quei giorni.
Per questo, arrivare davanti a un condominio di Milano, scendere dalla macchina nel vuoto di persone del dopocena metropolitano e cercare sulla pulsantiera del citofono quel nome, Pinelli, attiva un flashback che mi emoziona.
Evito l’ascensore, Claudia è sulla porta ad accogliermi.
Ci siamo scritti alla svelta, ci siamo sentiti telefonicamente una volta soltanto, mai incontrati prima. Quella di Claudia, una delle due figlie di Giuseppe Pinelli, è l’abitazione di una famiglia di impiegati quietamente milanese, così apparentemente simile ad altre. Così simile alla mia.
Rinuncio subito alla scaletta delle domande che mi ero preparato e cerco di seguire, per l’intervista, solo reciproche sensazioni.
<<Durante il fermo di mio padre, che si protrasse ben oltre i limiti di legge – e quindi in stato di palese illegalità che tengo a sottolineare – giunsero a casa nostra alcuni funzionari di polizia per una perquisizione domiciliare. Frugarono dovunque, aprendo persino i pacchi dei nostri regali, già confezionati in occasione di un Natale che sarebbe arrivato in una decina di giorni. Io e mia sorella Silvia avevamo nove e otto anni. Mia madre tentava di rassicurarci per l’assenza di Pino, che sapevamo essere in questura: “Massì, lo tengono lì per un po’e poi ce lo rimandano a casa… Gli faranno prendere un bello spaghetto, ma poi…” Ma poi non l’avremmo più rivisto>>
Claudia, durante tutto il tempo dell’intervista, chiamerà i suoi genitori Pino e Licia, e mai mamma e papà. A una mia precisa domanda, risponde con la fatica e l’intensità di chi cerca di dominare un proprio fatto emotivo, dice che usa fare così per “proteggersi” dalla sopraffazione affettiva.
<<Li chiamo in questo modo – accenna un sorriso tenerissimo – per… “tenerli a bada”…
Tre notti dopo, era la notte tra il 15 e il 16, Licia ci ha svegliato, a me e mia sorella, e affidato ad amici di famiglia coi quali saremmo poi state per qualche giorno. Non abbiamo neppure partecipato ai funerali. Licia ci ha sempre protetto, sempre.
Cambiammo casa, cambiammo scuola. Frequentavamo la Casa del Sole, un istituto scolastico milanese che garantiva il “tempo pieno”. Ricordo un fotografo che si era intrufolato per fotografarci, noi le figlie di Pino, per rubare una foto. Ma fu l’unico episodio spiacevole. La nostra, in fondo, fu una infanzia relativamente normale. Licia ha sempre fatto da scudo.>>
Siamo seduti entrambi sullo stesso divano: io ad un capo e lei all’altro. E’ rannicchiata nell’angolo, le braccia conserte e le gambe accavallate. Il compagno e la figlia, una ragazzina bella della sua incontenibile energia, appaiono e scompaiono discretamente, più volte, nella stanza.
Il tema dell’incontro con la famiglia del commissario Calabresi, voluto da Napolitano, è inevitabile.
<<Perché abbiamo accettato l’invito?>>
Compare Millo, gattone sontuoso e nero.
<<Perché si riparlasse di Pino. E’ stata una scelta di cui sono stata e resto convinta. Qualcuno parlò di riappacificazione – a sproposito – e altri di riabilitazione, ma non sono d’accordo. Pino non aveva bisogno di essere riabilitato per il semplice fatto che non ha mai commesso nulla di illegale, è stato subito scagionato da ogni accusa dagli stessi accusatori. Come si può parlare di riabilitazione? Da che cosa? Può un innocente essere riabilitato? Con quella cerimonia voluta dal Presidente, se mai, è stato sdoganata la sua figura di uomo innocente e “due volte vittima”, come lo stesso Napolitano ha ricordato con parole per noi importanti. Eravamo lì, io e Licia, per avere quel minimo di giustizia possibile, soprattutto per mia madre, per tutto quello che ha passato. E’ stato un vero e proprio atto di giustizia reso a Licia vivente, l’unico!, che certo non risarcisce, ma è stato sicuramente importante. Molti hanno parlato dell’incontro tra noi e i Calabresi come un atto di riappacificazione, ma anche questo è un errore: non c’è mai stata guerra, perché le famiglie non c’entrano, ma non c’è stata nemmeno vicinanza, per lo stesso motivo. Non esiste una sorta di comunanza nello status di vittime, non siamo assimilabili in nulla, non abbiamo costruito alcun rapporto reciproco. Il trattamento riservato a Pino non è certo lo stesso riservato a Calabresi, Pino non lo faranno santo. Diciamo che quel giorno al Quirinale ci è stata restituita, dopo anni, la sensazione di quello che potrebbe essere vivere in uno stato di diritto. >>
Il gatto Millo salta in braccio alla padrona, le si mette al collo e mi guarda. Noto qualche somiglianza tra i due: forse è un senso di naturale indipendenza, forse l’atteggiamento pronto alla difensiva, se mai occorresse.
<<Quel giorno è stato importante anche perché, per la prima volta dopo quarant’anni, abbiamo incontrato i famigliari e alcuni sopravvissuti della strage alla Banca dell’Agricoltura. E con loro abbiamo iniziato un percorso di testimonianza e di memoria. Si sa: chi ha vissuto quei tempi man mano non ci sarà più, e questo non deve lasciare un vuoto >>
Il compagno di Claudia ha un bel viso giovanile, impreziosito dai capelli bianchi, se ne sta in disparte e la osserva parlare, esprimendo con gli occhi affettuoso sostegno, senza mai intervenire.
<<Siamo sempre state orgogliose, io e Silvia, forti della forza di Licia. Dovemmo capire tutto, alcune volte solo intuendo. In una situazione del genere, con ciò che per noi comportò, perdi il padre e in un certo senso anche la madre, impegnata a far fronte a ogni tipo di pressione. Non so dire dove Licia abbia trovato la forza, ma ne ha avuta tanta, anche per noi.
La nostra conversazione non segue un percorso, lasciamo che la guidino le emozioni, a ruota libera.
Casa nostra era, da che mi ricordi, un porto di mare. Pino accoglieva, la casa era sempre aperta, faceva da mangiare lui per tutti. Pino era “ponte” tra i vecchi anarchici e i giovani delle nuove generazioni. Riusciva a tenere insieme due mondi perché li capiva entrambi. Il suo primo incontro con l’anarchismo lo ebbe, ancora bambino, quando per dare una mano in casa trovò un lavoro presso un anarchico che gli diede da leggere i primi libri. Poi fu come una malattia, quella dei libri, casa nostra era piena di libri. Prese a militare nel movimento anarchico: dibattiti, antimilitarismo, non-violenza, il Circolo del Ponte della Ghisolfa, la Croce Nera Anarchica, l’USI e l’anarcosindacalismo…, in una visione del mondo che lo portò in contatto con persone di ambienti e ideologie diverse soprattutto sui temi comuni della non violenza e dell’obiezione di coscienza. Giuseppe Gozzini, primo obiettore di coscienza cattolico in Italia, che per questo finì i galera, in una lettera ai giornali subito dopo la morte di Pino scrive “… lui, ateo, aiutava i cristiani a credere; lui, operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici…” Tanta passione politica di un uomo pacifico, alla luce del sole.
Dopo la tragedia, la violenza ulteriore delle calunnie su Pino, poi qualcosa pian piano cominciò a cambiare, qualcosa di inedito stava prendendo forma. Ricordo che, nel tragitto da casa nostra alla scuola, in pullman, guardando dai finestrini, iniziai a leggere scritte sui muri che dicevano: “Pinelli assassinato, la strage è di stato”. Era la coscienza civile, l’inchiesta, la solidarietà. Era tutto lì da vedere, da leggere sui muri parlanti di Milano. >>
Penso ai miei figli, penso a loro e a come potrebbero affrontare un simile dramma. Come si può spiegare a dei ragazzi un fatto del genere? Come glielo si dice? Claudia sorride:
<<Mia figlia, quella più grande, a sei anni, un giorno ha chiesto a Licia, senza troppi preamboli, in modo diretto come fanno i bambini, senza complessi, come fosse morto il nonno. Licia le disse: “Chiedilo alla mamma” e con lei ho fatto un percorso, anche doloroso, di ricostruzione e di restituzione di quel nonno che non ha potuto conoscere. La più piccola delle mie figlie, per sua stessa iniziativa, elaborò invece una soluzione personalissima, di fantasia: “Mio nonno era partigiano. E’ morto perché c’era la guerra”. Non aveva, in fondo, tutti i torti.>>
E’ difficile, porco demonio, è davvero difficile ascoltare Claudia senza emozionarsi. Ma io devo essere la grondaia e non la pioggia, essere solo il vettore, anche se non è semplice esercitare il distacco.
<<Mi chiedi del film di Giordana (“Romanzo di una strage”, Ndr), immaginavo che l’avresti fatto. L’ho visto e rivisto e man mano le mie perplessità sono aumentate, per come rappresenta gli anarchici, per come emerge la figura di Calabresi, per l’ipotesi finale della doppia bomba…. Avrebbe dovuto essere un film su piazza Fontana ma è risultato un film di difficile comprensione che non mi ha coinvolto emotivamente e per alcune ricostruzioni mi ha fatto arrabbiare…
Devo dire che Giordana si è comportato bene con noi, nei rapporti intercorsi è stato corretto.
Ma il film l’ho trovato troppo incentrato sulla figura di Calabresi, in una lettura che non riesco a condividere.
Oggi leggo che un attore, omonimo del figlio del commissario, Paolo Calabresi, starebbe per interpretare Pino in una fiction televisiva in preparazione. Un Calabresi che interpreta Pinelli…>>
Anch’io non so se questo sia uno sberleffo del destino, e guardo Claudia col suo gatto nero: si è fatto tardi e dobbiamo lasciarci.
Sulla via del ritorno penso che la Storia dovrebbe rifiutare da se stessa le menzogne, ma so che non è così. La verità è fatica, volontà, coraggio, ostinazione, abbiamo la responsabilità e il dovere di testimoniarla per un semplice fatto di necessità: siamo esseri umani, non possiamo certo essere da meno di quei muri parlanti di Milano.
Mark Adin
Note accessorie.
L’intervista, svoltasi il 10 dicembre 2012 a Milano, è disponibile a chiunque desideri pubblicarla su stampa o web, a condizione che ne conservi forma e interezza e indichi chiaramente il link di questa pagina e il nome dell’autore.
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