Chi come noi non ha interessi elettorali è nella migliore posizione per riconoscere la grande importanza che avranno, nel 2014, le elezioni per il parlamento europeo. È facile prevedere, nella maggior parte dei Paesi interessati, un elevato astensionismo e una significativa affermazione di forze “euroscettiche”, unite dalla retorica del ritorno alla “sovranità nazionale”, dall’ostilità all’euro e ai “tecnocrati di Bruxelles”. Non sono buone cose, per noi. Siamo da tempo convinti che l’Europa ci sia, che tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello dell’azione governamentale e capitalistica l’integrazione abbia ormai varcato la soglia dell’irreversibilità.
L'Unione Europea è irreversibile. Chi si chiede perché, resta deluso: l'Europa c'è perché c'è. La tradizione dotta avverte, tutto ciò che è reale è razionale e il popolare proverbio conferma, cosa fatta capo ha. Ma sia Hegel che il detto fiorentino, se da un lato fanno riflettere sul fatto che ogni situazione ha una sua ragion d'essere, nulla ci dicono sulla supposta irreversibilità. Le eclissi, della ragione o della democrazia, ad esempio, sono temporanee.
Anche negli anni '30 ci fu chi, con acute analisi, sentenziò che il fascismo era irreversibile e che conveniva adattarvisi. Per un simile eccesso di realismo, Nicola Bombacci passò dagli scranni comunisti di Montecitorio al plotone di esecuzione di Dongo.
Nella crisi, un generale riallineamento dei poteri – attorno alla centralità della BCE e a quel che viene definito “federalismo esecutivo” – ha certo modificato la direzione del processo di integrazione, ma non ne ha posto in discussione la continuità.
Qui si cambia marcia, la realtà non è più giustificazione di se stessa, ma accidente transitorio. Il dirigismo tecnocratico è volto nel più positivo federalismo esecutivo, ma - zuccherino - il processo di integrazione non si è interrotto. Qui sta il trucco: il processo di integrazione non si è interrotto perché non è mai cominciato, a meno che non si pensi che il processo di integrazione consista nella pretesa di modificare per decreto le culture dei popoli. Strategia autoritaria e coloniale che, frustrando i pii desideri degli illuministi, vale per il tempo che trova.
La stessa moneta unica appare oggi consolidata dalla prospettiva dell’Unione bancaria: contestare la violenza con cui essa esprime il comando capitalistico è necessario, immaginare un ritorno alle monete nazionali significa non capire qual è oggi il terreno su cui si gioca lo scontro di classe.
Non si poteva essere più chiari: oggi l'Europa non è altro che una moneta unica e una banca centrale che la gestisce. E' di fatto tutto il potere, che ora rafforziamo integrando fortemente le banche nazionali. Al re affianchiamo una camera dei lord. Qui non si realizza nessuno scontro di classe perché le élites non si sognano di interpellare le classi.
Certo, l’Europa oggi è un’“Europa tedesca”, la sua geografia economica e politica si va riorganizzando attorno a precisi rapporti di forza e di dipendenza che si riflettono anche a livello monetario. Ma solo l’incanto neoliberale induce a scambiare l’irreversibilità del processo di integrazione con l’impossibilità di modificarne i contenuti e le direzioni, di far agire dentro lo spazio europeo la forza e la ricchezza di una nuova ipotesi costituente.
Gli autori hanno appena introdotto un principio indimostrato (l'irreversibilità dell'integrazione europea) e già vi fanno ricorso per forzare le loro conclusioni.
Abbiamo appena appurato che: l'UE è di fatto il potere di una banca privata (BCE) e che tale potere si rafforza - rafforzando il suo strumento (l'euro) - con l'unione bancaria. L'uomo della strada concluderebbe col dire che questa è sempre di più l'Europa delle banche e sempre meno l'Europa dei cittadini.
Mezzadra e Negri ne convengono, ma siccome hanno assunto l'assioma dell'irreversibilità, concludono che per ora ci teniamo l'Europa che c'è, poi la cambiamo tutta.
Tralasciando il fatto (non tralasciabile) che l'attuale forma del potere europeo è - de jure e de facto - costituente, per cui già ci muoviamo, in affanno, all'inseguimento, resta la constatazione che la proposta appare quantomeno curiosa.
E' come se, nel referendum del 1946, si fosse data l'indicazione di votare per la monarchia, perché tanto, in sede di Costituente, si sarebbe poi stabilito che il re, scelto tra i cittadini eleggibili, sarebbe stato eletto dal parlamento, e avrebbe regnato sette anni.
In termini di lotta di classe, ciò vuol dire che, se nell'attuale fase è il nostro avversario a scegliere le modalità dello scontro, a noi spetterebbe l'avvertenza di scegliere il terreno più favorevole.
Sebbene anche Mezzadra e Negri ricorrano alla locuzione lotta di classe, l'impianto del loro discorso è solidamente idealista, ancorché non rigoroso, giacché nella loro irrequieta dialettica, talvolta si privilegia l'atto, tal'altra la potenza.
Rompere questo incanto, che in Italia è come moltiplicato dalla vera e propria dittatura costituzionale sotto cui stiamo vivendo, significa oggi riscoprire lo spazio europeo come spazio di lotta, di sperimentazione e di invenzione politica. Come terreno sul quale la nuova composizione sociale dei lavoratori e dei poveri aprirà, eventualmente, una prospettiva di organizzazione politica.
Da notare, in questo passaggio, il riferimento a una vera e propria dittatura costituzionale, che qui passa per una nostra stravagante variante nazionale e non , come sarebbe doveroso dire, per diretto commissariamento delle istituzioni da parte di quel potere europeo che (per ora) dovremmo tenerci.
Compare anche uno spazio sociale europeo, antica e fumosa formulazione, con connotati non necessariamente di classe. Infatti si pongono sullo stesso piano lavoratori e generici poveri.
Nella sua lotta sociale, il lavoratore ha come controparte immediata il padrone e la sua lotta mira all'erosione dei profitti, cioè alla restituzione di (sia pur modeste) quote di plusvalore. Viceversa, la lotta del povero è sempre lotta politica, che interpella le istituzioni per sollecitarle a una più efficace funzione di ridistribuzione, ottimizzando l'impiego della fiscalità. E' la classica prospettiva socialdemocratica ed è con sollievo che apprendiamo che la prospettiva di un'organizzazione politica a ciò finalizzata, sia solo eventuale.
Aggiungiamo anche che la lotta sociale in Europa, prima dell'avvento della UE era, per qualità e quantità, in migliore salute. A quei tempi, infatti, facevano fior di scioperi anche gli operai tedeschi, convinti che il loro avversario fosse il padrone e non i loro sciuponi colleghi di Spagna, Italia e Grecia. Va da sé che tale identificazione dellavversario induceva alla maturazione di sentimenti internazionalisti di massa, che oggi ci sogniamo.
Certo, lottando sul terreno europeo, essa avrà la possibilità di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalistica. È ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico.
Chissà chi è quell'essa posta a soggetto?
La nuova (de)composizione sociale, che abbiamo visto all'opera nel recente movimento dei "forconi"? Cioè la rissa tra porzioni del corpo sociale subalterno, che si rinfacciano l'un l'altra supposti privilegi, o la lotta tra un nord che difende i suoi residui di benessere contro un sud che vuole affrancarsi dalla fame?
Oppure è l'organizzazione politica (per di più eventuale) che cercherà di districare il nodo di tali contraddizioni? La storia assumerebbe tempi ben lunghi e di opinabile evoluzione.
E in questo caso, ammesso che ci riesca, come può pensare di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalista?
Nella situazione che è data, la miglior prospettiva possibile, è evidentemente un risveglio della classe operaia cinese o indiana. Un movimento vincente di forti rivendicazioni salariali in quei quadranti aprirebbe nuovi spazi di contrattazione alla classe operaia europea. Analogamente, un buon contratto alla Renault apre le possibilità di un buon contratto Fiat. Giova, dunque a operai di Fiat e Renault, che i loro padroni siano divisi e in competizione. Nella prospettiva di unità europea che si è delineata, già si uniscono le banche, poi toccherà all'industria e (forse), infine, ai lavoratori. Fiat e Renault saranno integrate molto prima di CGIL e CGT. Che questa sia la strada dei padroni ce lo insegna la storia: Valletta uscì dalla Confindustria molto prima di Marchionne, proprio per costruire una associazione europea dei produttori e un contratto europeo dell'automobile.
Non bisogna confondere il cosmopolitismo imperialista con l'internazionalismo proletario, marciare divisi per colpire uniti.
Se il discorso, dal salario, si allarga al reddito, diventa ancora più campato in aria.
Nel conflitto che oppone lavoratori e padroni, la posta in gioco è la fetta di salari e stipendi che si taglia nella torta dei profitti. Il padrone, per recuperare profitti cercherà di ingrandire la torta, acquisendo nuove quote di mercato e, di nuovo, i lavoratori reclameranno una fetta più grande.
Viceversa, per il reddito garantito, occorre ridisegnare le fette della torta della fiscalità generale. E' da vedere se, limando qui e là, si possa ottenere la fetta necessaria. Quanto a ingrandire la torta, qui vi voglio.
E' molto difficile, nel quadro imperioso della competitività internazionale, ingrandire la torta fiscale prelevando, come si vorrebbe, dall'accumulazione capitalistica. Ci si orienterebbe, con ogni probabilità a continuare con l'attuale strategia di esproprio delle classi medie , già a livello di massima tolleranza. Ne potrebbe derivare un disastro sociale che, oltre che pericoloso per le istituzioni democratiche, sarebbe incompatibile proprio con il proposito di assicurare a tutti un reddito.
Non che non si possa, intendiamoci, prelevare fiscalmente dai profitti, ma per farlo ci vogliono gli strumenti necessari e un preciso orientamento dell'opinione pubblica.
In Italia, almeno lo strumento ce l'abbiamo: la nostra Costituzione (emendata da elementi spuri) è infatti concepita come uno strumento di democrazia progressiva.
Ci si chiede quale sarebbe la via più razionale: partendo da uno strumento giuridico già esistente, (re)suscitare il movimento di idee che ne fu alla base, oppure: prima suscitare un opportuno movimento di idee e poi lottare per ottenerne un coerente strumento giuridico?
A noi pare che le forze di destra abbiano da tempo compreso che l’irreversibilità dell’integrazione segna oggi il perimetro di ciò che è politicamente pensabile e praticabile in Europa. Attorno a un’ipotesi di sostanziale approfondimento del neoliberalismo si è ormai organizzato un blocco egemonico che comprende al proprio interno varianti anche significativamente eterogenee (dalle aperture non solo tattiche in direzione di ipotesi socialdemocratiche di Angela Merkel alla violenta stretta repressiva e conservatrice di Mariano Rajoy). Le stesse forze di destra che si presentano come “anti-europee”, quantomeno nelle loro componenti più avvertite, giocano questa opzione sul terreno europeo, puntando ad allargare gli spazi di autonomia nazionale che nella costituzione della UE sono ben presenti e recuperando su un piano meramente demagogico il risentimento e la rabbia diffusi in ampi settori della popolazione dopo anni di crisi. Il riferimento alla nazione si dimostra qui per quel che è: la trasfigurazione di un senso di impotenza in aggressività xenofoba, la difesa di interessi particolari immaginati come architravi di una “comunità di destino”.
Qui, il succo parrebbe: dato che la destra, anche quando finge di essere antieuropeista, antieuropeista non è, dobbiamo adeguarci.
Per contro la sinistra socialista, anche dove non è direttamente parte del blocco egemonico neoliberale, fatica a distinguersene in modo efficace e ad elaborare proposte programmatiche di segno chiaramente innovativo. La candidatura di Alexis Tsipras, leader di Syriza, a presidente della Commissione europea riveste in questo quadro un indubbio significato, e ha determinato in molti Paesi una positiva apertura di dibattito a sinistra, anche se in altri (primo fra tutti l’Italia) sembrano prevalere gli interessi di piccoli gruppi o “partiti”, incapaci di sviluppare un discorso politico pienamente europeo.
Questo è probabilmente il passaggio che giustifica l'intero testo: spezzare una lancia a favore di Alexis Tsipras.
Notiamo con soddisfazione che è questione riservata alla sinistra socialista, che talvolta, come onestamente si ammette, fa direttamente parte del blocco egemonico neoliberale.
Sono lieto, come comunista, di non essere interpellato, ma mi piacerebbe sapere qual'è l'indubbio significato che assume la sua candidatura. Non vorrei che, dopo l'irreversibilità, ci fosse un secondo assioma da accettare per fede.
Se così stanno le cose, perché ci sembrano importanti le elezioni europee del prossimo maggio? In primo luogo perché tanto il relativo rafforzamento dei poteri del parlamento quanto l’indicazione da parte dei partiti di un candidato alla presidenza della Commissione fanno necessariamente della campagna elettorale un momento di dibattito europeo, in cui le diverse forze saranno costrette a definire e ad enunciare quantomeno un abbozzo di programma politico europeo. A noi pare dunque che si presenti qui un’occasione di intervento politico per tutti coloro che si battono per rompere tanto l’incanto neoliberale quanto il suo corollario, secondo cui l’unica opposizione possibile alla forma attuale dell’Unione Europea è il “populismo” anti-europeo.
Il risibile rafforzamento dei poteri, per il quale ci sono voluti 35 anni, del parlamento europeo, può ben dirsi relativo. Relativo al fatto che non ha nessun potere nella guida dell'Unione.
E' ben strano che ogni opposizione a questa federazione autoritaria, senza alcun controllo democratico sull'esecutivo, subalterna alla governance di una banca privata, debba essere sempre etichettata come populista. Non si può essere, magari, popolari?
Non escludiamo in linea di principio che questo intervento possa trovare interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale. Ma quello a cui pensiamo è prima di tutto un intervento di movimento, capace di radicarsi all’interno delle lotte che negli ultimi mesi si sono sviluppate, sia pure in forme diverse, in molti Paesi europei (cominciando a investire con significativa intensità anche la Germania).
Gli interessi elettorali sono esclusi fin dall'incipit, ma questo è un appello per un cartello elettorale in appoggio alla candidatura di Tsipras. E' dunque certo che si cercano interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale, anche se in questo passaggio è meglio sputarci sopra (movimentisticamente, non populisticamente, eh?) per strizzare l'occhio ai movimenti, di spezzoni dei quali si vorrebbe recuperare un pronunciamento elettorale.
Decisivo è oggi riqualificare un discorso di programma, e solo dentro e contro lo spazio europeo questo è possibile.
Ecco lo slogan elettorale: dentro e contro. Gli ossimori fanno bene alla poesia, ma riducono a caricatura la politica.
Non v’è oggi da indagare sociologicamente, magari all’ombra di qualche forcone, la “composizione tecnica di classe” nell’attesa messianica della “composizione politica” adeguata. Così come oggi non c’è da attendersi che si diano movimenti di classe vincenti che non abbiano interiorizzato la dimensione europea.
Prendiamoli come due comandamenti e non chiediamoci il perché.
Non sarebbe la prima volta, anche nella recente storia delle lotte, che taluni movimenti fossero obbligati dal modificarsi del quadro politico a ripiegare da grandi esperienze locali ad asfittiche chiusure settarie.
Chissà a chi pensano.
Si tratta di ricostruire immediatamente un orizzonte generale di trasformazione, di elaborare collettivamente una nuova grammatica politica e un insieme di elementi di programma che possano aggregare forza e potere dall’interno delle lotte, contrapponendosi alle derive che abbiamo visto in Italia nelle scorse settimane, dove non a caso il simbolo unificante è stato il tricolore. Qui e ora, lo ripetiamo, l’Europa ci appare il solo spazio in cui questo sia possibile.
Coerenti con il loro comandamento, non indagano sociologicamente e se la cavano con una battuta, dimenticando che il tricolore fu anche il simbolo unificante del CLN. E che le lotte contro colonialismo e imperialismo hanno sempre anche implicato una questione nazionale.
Un punto ci sembra particolarmente importante. La violenza della crisi farà sentire ancora a lungo i suoi effetti. All’orizzonte non c’è la “ripresa”, se per ripresa intendiamo un significativo riassorbimento della disoccupazione, la diminuzione della precarietà e un relativo riequilibrio dei redditi. Tuttavia, un ulteriore approfondimento della crisi sembra da escludere. L’accordo sul salario minimo su cui si è fondata la nuova grande coalizione in Germania pare piuttosto indicare un punto di mediazione sul terreno del salario sociale che può funzionare – a geometria e geografia variabili – come criterio di riferimento generale per la definizione di uno scenario di relativa stabilità capitalistica in Europa.
Francamente non si comprende perché, in uno scenario costante di scarsità delle risorse, certe scelte tedesche (in gran parte già presenti e presenti in altri paesi UE) possano diventare il modello a cui uniformarsi. Sul welfare europeo, la Germania si è espressa in maniera inequivocabile in Grecia e a Cipro. Per i tedeschi, ogni paese europeo dovrebbe fare unicamente ciò che può permettersi.
Ma anche ammettendo di poter aspirare a un sistema di reddito sociale (si tenga presente, come punto di riferimento, l'ammontare delle nostre pensioni minime e di quelle d'invalidità), sarebbe conveniente scambiarlo con le normative sociali nazionali? Gli stessi autori ci avvertono del pericolo:
È uno scenario, non è la realtà attuale, ed è uno scenario di relativa stabilità capitalistica. Sotto il profilo della forza lavoro e delle forme della cooperazione sociale, questo scenario assume come dati di partenza l’estensione e l’intensificazione della precarietà, la mobilità all’interno dello spazio europeo e dall’esterno, il declassamento di quote rilevanti di lavoro cognitivo e la formazione di nuove gerarchie all’interno di quest’ultimo, che si sono determinati nella crisi. Più in generale lo scenario di relativa stabilità di cui parliamo registra la piena egemonia di un capitale le cui operazioni fondamentali hanno una natura estrattiva, combinano cioè alla persistenza del tradizionale sfruttamento un intervento di “prelievo” diretto della ricchezza sociale (attraverso dispositivi finanziari ma anche assumendo come terreno privilegiato di valorizzazione “beni comuni” come, fra gli altri, la salute e l’istruzione).Non a caso i movimenti hanno compreso che su questo terreno si danno le lotte capaci di colpire il nuovo regime di accumulazione, come hanno mostrato in Italia il 19 ottobre.
Questo è lo scenario. I padroni sono forti e uniti, il movimento è, in tutt'Europa più debole di dieci anni fa e quote di ceti popolari vengono crescentemente attratti dalle sirene xenofobe e neofasciste.
Val la pena di insistere con questo gioco?
In Grecia un fortissimo movimento di protesta è stato sconfitto da un governo che aveva una sola arma: l'euro.
Cosa avrebbero fatto i padroni greci se avessero dovuto affrontare scioperi di 48 ore con i tasca le dracme?
Che effetti avrebbe avuto la lotta del popolo greco in Italia, Spagna, Portogallo e persino in Francia?
Dentro questo scenario si tratta ovviamente di guardare alla specificità delle lotte che si sviluppano, di analizzarne l’eterogeneità e di misurarne l’efficacia in contesti politici, sociali e territoriali che possono essere anche molto diversi. Ma si tratta anche di porre il problema del modo in cui possono convergere, moltiplicando la loro stessa potenza “locale”, entro la cornice europea. La delineazione di nuovi elementi di programma può prendere intanto la forma della scrittura collettiva di una serie di principi inderogabili, sul terreno del welfare e del lavoro, della fiscalità e della mobilità, delle forme di vita e della precarietà, su tutti i terreni su cui si sono espressi e si esprimono i movimenti in Europa. Non è una carta dei diritti scritta dal basso, e da proporre a qualche assise istituzionale, quella a cui pensiamo: è piuttosto un esercizio collettivo di definizione programmatica che, come comincia a mostrare in queste settimane la stesura della “Carta di Lampedusa” per quel che riguarda la migrazione e l’asilo, può diventare strumento di organizzazione a livello europeo. Senza dimenticare che in questo lavoro possono sorgere impulsi decisivi, fin da subito, per la costruzione di coalizioni di forze locali ed europee, sindacali e mutualistiche, in movimento.
Ecco, infine la proposta concreta, scrivere per l'ennesima volta la carta dei diritti negati. Come se non fosse già marchiata a fuoco sulla pelle e nel cuore di tutti gli sfruttati del mondo.
Di questa letterina densa di principi apoditticamente indimostrati, che trovano il loro unico fondamento nell'ossessività con cui l'apparato propagandistico del nemico di classe ce li ha ripetuti, potevamo anche farne a meno.
E facevamo a meno anche dell'ennesima riproposizione del programma, ormai bolso, della Seconda Internazionale: gran cagnara per modesti e miserabili risultati.
Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (Antonio Gramsci)
giovedì 9 gennaio 2014
lunedì 9 dicembre 2013
Appunti di storia della lotta armata [2]
L'anno prima
Chi li capisce il PCI e la CGIL? Due anni prima, a Genova, quando c'era il governo Tambroni, stravedevano per quei giovani con le magliette a strisce che le suonavano alla celere, ma oggi, a Torino, in piazza Statuto, non gli piacciono più.
Cos'è successo? È successo che SIDA e UIL hanno firmato un'accordo separato e alla Fiat, FIOM e FIM hanno proclamato lo sciopero.
Sono per l'azione e il loro modello è Jules Bonnot e la sua banda di rapinatori anarchici. I soldi serviranno per finanziare non si sa bene che, nel frattempo la rapina, come atto eversivo nei confronti del potere normativo del denaro, è sufficiente ragione di se stessa.
In carcere, forse assecondata da un violento pestaggio delle guardie carcerarie, Cavallero ha una crisi mistica e abbraccia la fede. Notarnicola, invece, radicalizza le sue posizioni, il suo sarà il primo nome della lista dei prigionieri che le BR vorrebbero liberati in cambio di Aldo Moro.
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Genova, 30 luglio 1960 |
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Torino, luglio 1962 |
Scioperano tutti, o quasi, la strada si riempie di gente e gli operai si dirigono verso Piazza statuto, dove c'è la sede della UIL.
Invano i galoppini sindacali e di partito si affannano a soffiare sul fuoco, la gente è incazzata, volano sassi e cominciano gli scontri con la polizia, che durano tre giorni, notti comprese.
La condanna della sinistra storica è unanime: i giovani dimostranti sono elementi incontrollati ed esasperati, piccoli gruppi di irresponsabili, giovani scalmanati.
Ma tutta la Torino democratica e antifascista è lì a dar loro una mano.
C'è anche Sante Notarnicola, 24 anni, pugliese. Ha trascorso l'infanzia in un istituto e da dieci anni è arrivato a Torino, dove vive la madre. È comunista, è stato anche segretario della FGCI, ma il partito gli sta stretto.
Sante, in quella piazza si muove bene, con decisione. Lo nota Pietro Cavallero, di una decina d'anni più vecchio. Anche lui è stato, nel dopoguerra, un dirigente della gioventù comunista. Ma è un estremista e il partito lo ha scaricato.
Diplomato e con una vasta cultura d'autodidatta, frustrato nelle sue ambizioni di rivoluzionario professionale, Pietro è ormai un disadattato che non riesce ad avere un lavoro fisso, come Sante.
Sono fatti per intendersi e per fare sul serio.
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Scheda segnaletica di Jules Bonnot |
Cavallero coinvolge un altro compagno, quasi coetaneo , ma che fatto in tempo a partecipare, giovanissimo, alla Resistenza: Adriano Rovoletto.
Nel 1963 cominciano le prime rapine, andranno avanti per quattro anni, trasformandosi in colpi sempre più audaci che terrorizzano il triangolo industriale. Épater le bourgeois!
Aprono un ufficio di copertura e si assegnano un normale stipendio, non si concedono lussi. Dopo qualche anno, associano all'impresa un apprendista, Donato Lopez, di soli 17 anni, di una famiglia emigrata dal sud.
L'ultima rapina è il 25 settembre del 1967. Intercettati dalla polizia iniziano una fuga forsennata con sparatoria e tre passanti ci rimettono la vita.
Sono presi e processati rapidamente. Lopez, per la giovane età, viene condannato a dodici anni, per gli altri tre è l'ergastolo.
Alla sentenza, i tre balzano in piedi e intonano Figli dell'officina.
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Cavallero, Notarnicola e Rovoletto al momento della sentenza |
Inutile dire che la dimensione politica della loro azione, sfuggì, allora ai più. Fu considerata una pagliacciata da non prendere in seria considerazione e furono sbrigativamente liquidati come delinquenti politici. Di lì a poco, saranno imitati.
D'altronde era solo il 1967 e l'Italia era ancora un paese arretrato e provinciale.
Era l'anno prima.
appunti di storia della lotta armata [1]
L'onda lunga della guerra civile
Voi avete tradito la Resistenza – vogliamo si sappia – e nessuna mistificazione potrà mutare la realtà storica – quali furono le forze motrici della Resistenza e quali invece forze che, pur partecipando ai Comitati di Liberazione Nazionale, facevano da remora e praticamente agirono per limitare la guerra di Liberazione nazionale e per impedire o fare fallire l’insurrezione nazionale … saranno le masse lavoratrici a dare la spinta decisiva per l’azione di rinnovamento sociale: e questa spinta sarà tanto più travolgente quanto più avrete cercato di calpestare la volontà popolare, di farvi gioco delle aspirazioni e degli interessi della nazione
Così si esprimeva, prendendo la parola in senato, Pietro Secchia, il giorno dell'insediamento del governo Scelba, 10 febbraio 1954.
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Pietro Secchia muore nel 1973, di ritorno dal Cile, dove, a suo dire, sarebbe stato avvelenato dalla CIA. |
Pietro Secchia è il vicesegretario del PCI, della cui organizzazione è il responsabile. Si dice che diriga anche un apparato occulto, pronto all'insurrezione o quanto meno a reagire con le armi a un eventuale colpo di stato fascista.
Certo è che i partigiani comunisti le armi non le hanno riconsegnate tutte, e che le hanno, ad ogni buon conto nascoste.
Quando si parla di Resistenza tradita, si parla, in forma forse volutamente equivoca di due cose diverse: la rottura dell'unità antifascista, con conseguente richiamo in servizio, in qualità di cani da guardia, dei neofascisti, oppure la brusca interruzione di un programma che intendeva proseguire, oltre la lotta contro il fascismo, fino alla trasformazione in senso socialista del paese.
I due tradimenti si riferiscono ad altrettante definizioni che della Resistenza sono state date, guerra di liberazione, nel primo caso, guerra civile nel secondo.
È curioso che proprio i partigiani più coerenti con i propositi di trasformazione sociale saranno i più decisi a rifiutare quest'ultima definizione, quando sarà proposta da Claudio Pavone (1991).
Nel citato discorso di Secchia i due concetti si fondono, si parte dal primo per approdare al secondo.
Ma un terzo concetto, più spiccio, si era già diffuso immediatamente a ridosso della Liberazione, quando l'assunzione di tutti i poteri da parte degli Alleati aveva comportato il trasferimento dei processi politici ai tribunali ordinari, deludendo le attese della tanto sperata resa dei conti.
Le esecuzioni si erano dunque prolungate in modo clandestino, il caso più noto fu quello della milanese (ma con propagini nel famigerato triangolo della morte emiliano) Volante Rossa, che agì fino al 1949.
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Milano, 25 aprile 1948, la Volante Rossa apre il corteo del PCI. |
La Volante Rossa, oltre all'azione clandestina, opera come ufficioso servizio d'ordine del PCI milanese e come tale, nel novembre del 1947, interviene per garantire l'occupazione della prefettura voluta da Giancarlo Pajetta.
Secondo un rapporto del consolato americano a Milano (1947), questa e altre formazioni farebbero parte di un apparato militare del PCI comandato da Cino Moscatelli.
L'apparato è pronto - e in qualche caso, passa - all'azione, nel 1948, in seguito all'attentato contro Togliatti.
È questa l'occasione, insieme a un'ondata di inchieste retroattive su supposti crimini dei tempi di guerra , per colpire repressivamente molti ex partigiani che si suppone faccciano parte dell'apparato clandestino: scattano arresti e condanne, molti trovano rifugio oltrecortina.
Nel dicembre 1950 è il Sifar ad occuparsene in un suo rapporto. Secondo il servizio segreto, i responsabili militari, oltre a Moscatelli, sarebbero Arrigo Boldrini, Bulow, presidente dell'ANPI, Ilio Barontini e Giorgio Amendola.
Con la distensione internazionale l'apparato parallelo, seppur non smantellato, entra in stand bay, ma alla fine degli anni '60, la strategia della tensione, il colpo di stato dei colonnelli in Grecia e, successivamente, quello di Pinochet in Cile, ne mettono in fibrillazione singole parti che andranno definitivamente a saldarsi alle avanguardie di matrice extraparlamentare quando Berlinguer, per eccesso di legalitarismo, scioglierà le commissioni antifasciste – ovvero gli organi di direzione politica dell'apparato – delle federazioni.
Nel frattempo, non senza travagli e avventure, le diverse anime del sopravvissuto fascismo – tanto quella velleitarmente rivoluzionaria e d'ispirazione sociale che incarna lo spirito della RSI, quanto quella reazionaria, erede del fascismo monarchico – sono confluite nel MSI, dove la convivenza è spesso difficile. Le frange estreme si presteranno, pertanto, a essere massa di manovra di apparati di sicurezza dello stato della cui fiducia e protezione godono, poiché in essi ancora operano, molto spesso, gli stessi funzionari del precedente ventennio.
Ma per gli smobilitati della Decima e delle Brigate Nere si aprono anche rosee prospettive di individuale carriera. Grandi e piccoli industriali, superata la breve paura dell'epurazione, sono infatti a caccia di fascisti a cui affidare le relazioni interne delle loro aziende.
Non c'è industria, o quasi, che non abbia, come capo del personale, un fascista.
Dopo l'autunno caldo, quando comincerà, in ogni fabbrica, una lotta senza quartiere per il ripristino della disciplina, capi e capetti di tale estrazione cercheranno inevitabilmente di reimporre il proprio stile rozzo, arrogante e prepotente.
Saranno i primi obbiettivi di una nascente organizzazione.
sabato 30 novembre 2013
altro che unità: è ora di separarci!
cacciamo gli elementi piccolo-borghesi dalle nostre fila, solo epurandoci ci rafforzeremo
E' arrivato il momento di reagire contro l'egemonia borghese che ha ridotto all'impotenza il movimento comunista.
Troppi idioti affollano le nostre riunioni umiliando il dibattito con temi estemporanei che non si rifanno all'analisi della realtà, ma a convinzioni ideologiche.
Abusando della pazienza di tutti, introducono elementi estranei al dibattito e scatenano polemiche inutili il cui scopo, che ne siano consci o no, è quello di sabotare ogni tentativo di ripresa dell'iniziativa comunista.
Sono facilmente riconoscibili per l'enfasi con cui dicono cose vecchie ormai di vent'anni, certi di affermare cose nuove e per il sussiego con cui presentano i loro risibili argomenti, convinti di impastare farina del proprio sacco, mentre propagano tesi riconducibili a questa o quella gazzetta del padrone.
Dobbiamo cacciarli via!
E dobbiamo essere chiari:
E' arrivato il momento di reagire contro l'egemonia borghese che ha ridotto all'impotenza il movimento comunista.
Troppi idioti affollano le nostre riunioni umiliando il dibattito con temi estemporanei che non si rifanno all'analisi della realtà, ma a convinzioni ideologiche.
Abusando della pazienza di tutti, introducono elementi estranei al dibattito e scatenano polemiche inutili il cui scopo, che ne siano consci o no, è quello di sabotare ogni tentativo di ripresa dell'iniziativa comunista.
Sono facilmente riconoscibili per l'enfasi con cui dicono cose vecchie ormai di vent'anni, certi di affermare cose nuove e per il sussiego con cui presentano i loro risibili argomenti, convinti di impastare farina del proprio sacco, mentre propagano tesi riconducibili a questa o quella gazzetta del padrone.
Dobbiamo cacciarli via!
E dobbiamo essere chiari:
- i diritti umani sono un'invenzione dell'illuminismo e restano affare interno della borghesia. Noi non siamo contro i diritti umani e siamo pronti a insorgere se vengono calpestati, ma non siamo interessati a sostenere le campagne delle lobby etniche, religiose, culturali, di genere, di specie, di orientamento sessuale, che hanno il solo scopo di promuovere le élite di minoranze organizzate.
- la pace, noi siamo contro l'imperialismo armato, ma siamo a favore della Guerra Civile in Spagna, di Stalingrado, della Resistenza, della lotta del popolo del Vietnam e altro ancora, non siamo pacifisti e non siamo disponibili a impegnarci su questo tema su base etica.
- la lotta di classe noi siamo per i diritti collettivi, i diritti sociali, per tutte le libertà e le conquiste che modificano concretamente il sistema di potere esistente, alterandone gli equilibri di classe. Non siamo disponibili a lotte sul piano simbolico, utili solo a procurare cattedre universitarie.
non c'è posto, tra noi, per chi vuole fare carriera nel sistema dei padroni.
giovedì 28 novembre 2013
venerdì 15 novembre 2013
Sutor non ultra callidas
ovvero:
Letta è più razzista di Calderoli
Si dice che lo scultore Apelle, avendo colto le critiche di un ciabattino, avesse corretto la forma dei calzari di una sua scultura. Si racconta poi che, quando l'inorgoglito calzolaio aveva esteso le sue critiche ad altri particolari della sua opera, lo scultore ne avesse stizzosamente represso le velleità, pronunciando la frase sutor non ultra callidas, il ciabattino non vada oltre le scarpe.
Deve essere questo il principio che ha guidato Enrico Letta alla formazione del suo governo.
Nel decidere - sparagna e comparisci - di inserire un ministro di colore nel suo governo, gli ha inventato appositamente un ministero per negri.
Poco costoso, è vero, ma anche assolutamente inutile.
Cosa poteva fare, la povera Kienge, con siffatto ministero? Nulla, assolutamente nulla, se non un po' di lodevole propaganda per la quale, a ben vedere, poteva bastare il suo ruolo di parlamentare.
Sembra essere stata messa lì, a bell'apposta, per scatenare gli insulti volgari di Calderoli & co. e costringere l'opposizione di sinistra alla solidarietà con il governo. E, naturalmente, è proprio così.
Letta non è certamente Lenin, che a una cuoca avrebbe affidato il ministero dell'economia e non quello del minestrone, ma qualcosa di più avrebbe potuto fare.
Se ha deciso, e sono d'accordo con lui, che la Kienge può essere un buon ministro, doveva affidargli il ministero degli interni o quello della giustizia.
Lì, quotidianamente, Cécile potrebbe intervenire sul razzismo spicciolo alimentato da un sistema legale di discriminazione e segregazione, cioè sul nostro razzismo di Stato codificato.
Oltretutto le cronache dimostrano che non avrebbe potuto far peggio degli attuali ministri in carica.
Ma per Letta, i grandi si occupano delle cose serie, mentre i bambini hanno la loro cameretta coi giochi. Forse inventerà un ministero per gay e uno per i disabili.
Alla simpatica ministra, un consiglio: se ne vada sbattendo la porta, dimostrandoci che nel suo petto batte il cuore di Django e non del collaborativo negro di casa.
martedì 22 ottobre 2013
segnalazione
Giuseppe Veronica, Hamid non sa leggere. Malessere in classe o malessere di classe? in: "Zapruder" n. 31
in vendita presso Mondo Musica, viale Roma 20 Novara
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