Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (Antonio Gramsci)
venerdì 21 novembre 2014
giovedì 30 ottobre 2014
Una sola Palestina
Il sanguinoso fai da te da Far West dei coloni, le infamie degne delle SS dell'esercito israeliano e il cinismo razzista del governo di Tel Aviv hanno definitivamente sgombrato il campo dall'ipotesi opportunista di una convivenza pacifica di due nazioni su una sola terra.
Avamposto coloniale edificato col fuoco del terrorismo e l'oro di Wall Street, Israele non ha nessun diritto all'esistenza.
Dare la Palestina agli Israeliani è come dare il Congo ai Belgi, l'Algeria ai Francesi o la Somalia agli Italiani.
LA PALESTINA AI PALESTINESI
martedì 7 ottobre 2014
tfr, proposta iniqua, idiota e irresponsabile
Il ridicolo espediente di mettere in busta paga i soldi delle liquidazioni dimostra inequivocabilmente una cosa, che si sente il bisogno di fare politiche anticicliche, mentre UE e BCE si ostinano nell'austerità prociclica.
Ma il succube governo nazionale non ha il coraggio di finanziarle in deficit e si arrabatta affinché siano gli stessi lavoratori a finanziare la ripresa.
L'idea non è originale, ricalca quella recente del leader conservatore David Cameron che ha cancellato l'obbligo di reinvestire i risparmi pensionistici in nuovi strumenti assicurativi.
Si cerca, dunque, in controtendenza con quanto sostenuto ossessivamente fino ad ora (cosa lasceremo ai nostri figli?), di dirottare risorse dal risparmio ai consumi.
Qui da noi, si è pensato di attingere da ciò che costituisce una forma di risparmio forzoso, il tfr.
Intanto, bisognerebbe verificare se tali fondi sono stati effettivamente accantonati. Lo stato, ad esempio, non lo fa (a proposito, il provvedimento si estende agli statali?).
Ma anche chi li accantona, non li mette sotto il materasso, li utilizza per autofinanziarsi a tasso inferiore di quello bancario.
C'è chi li riveste in azienda e chi li utilizza per farsi la villa al mare, ma in ogni caso, quei soldi sono impiegati.
Siccome i soldi non si raddoppiano con facilità, se vanno in busta paga, non restano al padrone, con la conseguenza che il provvedimento non rilancerà i consumi, ma si limiterà a spostarli: si compreranno più divani, ma meno macchine utensili, si faranno più abbonamenti alle palestre, ma servirà meno cavo elettrico, e così via.
Dunque, sul lato dei consumi, il saldo non cambierà, mentre su quello dell'occupazione, potrebbe diventare anche negativo. Infatti, se il produttore di divani, per l'aumentata domanda, potrebbe aver bisogno di un operaio in più, quello che fa macchine a controllo numerico, stretto tra contrazione del mercato e aumentato fabbisogno di finanziamento bancario, potrebbe decidere di licenziarne due.
Riassumendo la proposta è:
Ma il succube governo nazionale non ha il coraggio di finanziarle in deficit e si arrabatta affinché siano gli stessi lavoratori a finanziare la ripresa.
L'idea non è originale, ricalca quella recente del leader conservatore David Cameron che ha cancellato l'obbligo di reinvestire i risparmi pensionistici in nuovi strumenti assicurativi.
Si cerca, dunque, in controtendenza con quanto sostenuto ossessivamente fino ad ora (cosa lasceremo ai nostri figli?), di dirottare risorse dal risparmio ai consumi.
Qui da noi, si è pensato di attingere da ciò che costituisce una forma di risparmio forzoso, il tfr.
Intanto, bisognerebbe verificare se tali fondi sono stati effettivamente accantonati. Lo stato, ad esempio, non lo fa (a proposito, il provvedimento si estende agli statali?).
Ma anche chi li accantona, non li mette sotto il materasso, li utilizza per autofinanziarsi a tasso inferiore di quello bancario.
C'è chi li riveste in azienda e chi li utilizza per farsi la villa al mare, ma in ogni caso, quei soldi sono impiegati.
Siccome i soldi non si raddoppiano con facilità, se vanno in busta paga, non restano al padrone, con la conseguenza che il provvedimento non rilancerà i consumi, ma si limiterà a spostarli: si compreranno più divani, ma meno macchine utensili, si faranno più abbonamenti alle palestre, ma servirà meno cavo elettrico, e così via.
Dunque, sul lato dei consumi, il saldo non cambierà, mentre su quello dell'occupazione, potrebbe diventare anche negativo. Infatti, se il produttore di divani, per l'aumentata domanda, potrebbe aver bisogno di un operaio in più, quello che fa macchine a controllo numerico, stretto tra contrazione del mercato e aumentato fabbisogno di finanziamento bancario, potrebbe decidere di licenziarne due.
Riassumendo la proposta è:
- iniqua, perché fa finanziare la ripresa a stipendi e salari e non a profitti e rendite;
- idiota, perché non creerà consumi, ma si limiterà a spostarli;
- irresponsabile, perché invita alla volatilizzazione di un risparmio che potrebbe essere l'unica speranza di edulcorare la miseria certa garantita, alla fine della vita lavorativa, dal passaggio dal retributivo al contributivo.
sabato 28 giugno 2014
Una biografia esemplare
C'è una tradizione estremista della Seconda Internazionale che si può riassumere nella parola d'ordine: massimo di movimento, minimo di politica.
Il trotskismo e il socialismo rivoluzionario italiano si rifanno a questa tradizione dagli esordi rivoluzionari e gli esiti socialdemcratici.
Carlo Andreoni (Giaveno, 1901 – Roma, 1957
Già esponente del Partito Socialista Unitario, il 10 gennaio 1943 partecipa alla fondazione, a Milano, del Movimento di Unità Proletaria, e dal 23 agosto dello stesso anno dà vita con altri al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.
Successivamente, dal novembre 1943, guidò il movimento partigiano di Roma, al quale collaborò attivamente con Aldo Finzi che, arrestato, fu fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Il 6-7 gennaio 1945 la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani organizzò a Napoli un Convegno delle Sinistre, al quale, oltre a formazioni minori, parteciparono Bandiera Rossa e i socialisti rivoluzionari, che seguivano Andreoni. In quell’occasione, furono presentate le tesi programmatiche, con il titolo "Per la costituzione del vero partito comunista", in cui si prospettava lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria.
Tra l’estate e l’autunno del 1946 dirige il Movimento di Resistenza Partigiana (MRP), formazione eterogenea che raccoglie in prevalenza partigiani libertari, azionisti, matteottini, oltre che sbandati in genere che, sentendo traditi gli ideali della Resistenza, risalgono in armi sulle montagne.
Ma nel 1948 è già direttore del quotidiano socialdemocratico L'Umanità.
Dopo il 1953 collabora col movimento anticomunista Pace e Libertà di Luigi Cavallo e Edgardo Sogno.
Il trotskismo e il socialismo rivoluzionario italiano si rifanno a questa tradizione dagli esordi rivoluzionari e gli esiti socialdemcratici.
Carlo Andreoni (Giaveno, 1901 – Roma, 1957
Già esponente del Partito Socialista Unitario, il 10 gennaio 1943 partecipa alla fondazione, a Milano, del Movimento di Unità Proletaria, e dal 23 agosto dello stesso anno dà vita con altri al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.
Successivamente, dal novembre 1943, guidò il movimento partigiano di Roma, al quale collaborò attivamente con Aldo Finzi che, arrestato, fu fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Il 6-7 gennaio 1945 la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani organizzò a Napoli un Convegno delle Sinistre, al quale, oltre a formazioni minori, parteciparono Bandiera Rossa e i socialisti rivoluzionari, che seguivano Andreoni. In quell’occasione, furono presentate le tesi programmatiche, con il titolo "Per la costituzione del vero partito comunista", in cui si prospettava lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria.
Tra l’estate e l’autunno del 1946 dirige il Movimento di Resistenza Partigiana (MRP), formazione eterogenea che raccoglie in prevalenza partigiani libertari, azionisti, matteottini, oltre che sbandati in genere che, sentendo traditi gli ideali della Resistenza, risalgono in armi sulle montagne.
Ma nel 1948 è già direttore del quotidiano socialdemocratico L'Umanità.
Dopo il 1953 collabora col movimento anticomunista Pace e Libertà di Luigi Cavallo e Edgardo Sogno.
giovedì 8 maggio 2014
ancora ricordi personali
La tela di Penelope 1
Il 1976 è un anno importante. A giugno nasce il mio secondo figlio e intanto ho vinto il concorso alla Biblioteca Negroni, a due passi da casa. La miseria sembra finita.Ho anche ripreso gli studi, su cui nicchiavo, e in un anno darò 13 esami, portandomi a ridosso di quella laurea che poi non prenderò.
In attesa di prendere servizio in biblioteca, ogni sera alle nove raggiungo in Piazza Martiri l'amico Milli.
In due, su uno scalcagnato motorino, raggiungiamo una fabbrichetta fuori città, dove per tutta la notte badiamo alle presse per il polistirolo. Al mattino, il padrone ci mette in mano diecimila lire.
Insomma, se il futuro è roseo, il presente è ancora un po' stenterello, ma ho venticinque anni e mi sembra di aver tutto.

Qui incontro tutti, e un pomeriggio incontro anche Piero Piazzano.
A Piero debbo tanto, è lui che mi ha introdotto nel giro dell'editoria milanese dove, con editing, traduzioni e correzioni di bozze, ho attinto gran parte del mio reddito di giovanissimo capofamiglia.
Piero ha lasciato l'Etas, per andare a dirigere una nuova impresa editoriale, Euroguide. Non passava per caso, sotto casa mia, stava cercandomi, ha bisogno di un collaboratore.
Accetto, ma pro tempore, la vita da topo di biblioteca che il concorso mi ha prospettato è una prospettiva allettante, a cui non voglio rinunciare.
Comincio a fare il pendolare.
(continua)
sabato 19 aprile 2014
Prima gli italiani
Questa parola d'ordine xenofoba aveva già avuto una breve stagione di popolarità, riprende adesso fiato, rilanciata dal successo dell'analogo motto del FN francese.
Destinata a una limitata diffusione, in periodi di relativa abbondanza, rischia di dilagare in momenti di penuria delle risorse, un fenomeno assolutamente naturale.
Assume, talvolta, sembianze ridicole:
Rispetto a questa affermazione, ci si divide su basi ideologiche, accettandola o rifiutandola totalmente, senza entrare nel merito, per giustificarne, o rigettarne, i fondamenti.
Chi sostiene questa parola d'ordine, interrogato a proposito, generalmente risponde: prima c'eravamo noi, poi sono arrivati loro. Affermazione che suona come una solenne cretinaggine, e probabilmente lo è, ma che è anche la risposta che darebbe l'uomo della strada palestinese, a proposito dei suoi guai.
Certamente, l'evoluzione delle due situazioni è completamente differente, ed è poco lecito confrontarle, in Palestina si contrappongono due stati sovrani. Però, probabilmente, questa stessa risposta la si sarebbe già sentita nel 1948, quando la porzione di sovranità israeliana era molto limitata e i coloni ebrei acquistavano terre in territorio palestinese. A quel tempo, la frase non alludeva a una contrapposizione tra stati, ma tra nazioni.
Ma, ugualmente, il paragone non calza, i mityashvim si ispiravano al modello dell'espansione a ovest dei coloni americani, quella Nuova Frontiera in cui era ammesso, spacciato per autodifesa, l'uso disinvolto delle armi, contro i nativi.
L'atteggiamento violentemente rivendicativo su quelle terre era già stato reso chiaro dalle azioni dell'Haganah, anche se le potenze occidentali finsero di non vedere.
Forse, fatte le debite proporzioni, nella sensazione che l'autorità, fingendo di non vedere, parteggi per i nuovi arrivati, c'è l'unica analogia credibile.
Destinata a una limitata diffusione, in periodi di relativa abbondanza, rischia di dilagare in momenti di penuria delle risorse, un fenomeno assolutamente naturale.
Assume, talvolta, sembianze ridicole:
Rispetto a questa affermazione, ci si divide su basi ideologiche, accettandola o rifiutandola totalmente, senza entrare nel merito, per giustificarne, o rigettarne, i fondamenti.
Chi sostiene questa parola d'ordine, interrogato a proposito, generalmente risponde: prima c'eravamo noi, poi sono arrivati loro. Affermazione che suona come una solenne cretinaggine, e probabilmente lo è, ma che è anche la risposta che darebbe l'uomo della strada palestinese, a proposito dei suoi guai.
Certamente, l'evoluzione delle due situazioni è completamente differente, ed è poco lecito confrontarle, in Palestina si contrappongono due stati sovrani. Però, probabilmente, questa stessa risposta la si sarebbe già sentita nel 1948, quando la porzione di sovranità israeliana era molto limitata e i coloni ebrei acquistavano terre in territorio palestinese. A quel tempo, la frase non alludeva a una contrapposizione tra stati, ma tra nazioni.
Ma, ugualmente, il paragone non calza, i mityashvim si ispiravano al modello dell'espansione a ovest dei coloni americani, quella Nuova Frontiera in cui era ammesso, spacciato per autodifesa, l'uso disinvolto delle armi, contro i nativi.
L'atteggiamento violentemente rivendicativo su quelle terre era già stato reso chiaro dalle azioni dell'Haganah, anche se le potenze occidentali finsero di non vedere.
![]() |
1948: Militi dell'Haganah scortano gli arabi espulsi da Haifa |
Restiamo comunque agli ebrei, per osservare questa vignetta, pubblicata su un giornale tedesco, molto prima che Hitler andasse al potere:
Secondo il censimento del 16 giugno 1933, la popolazione ebraica in Germania contava circa 505.000 persone su un totale di 67 milioni di abitanti; in altri termini, meno dello 0.75 per cento.
I primi insediamenti della diaspora in territorio tedesco sono anteriori al X secolo, dunque questa piccola minoranza è qui da un millennio.
Ciononostante, il senso della vignetta è chiaro, malgrado i mille anni trascorsi, rimangono gli ultimi arrivati, che occupano i posti che dovrebbero essere riservati ai più antichi titolari della germanità.
Ben pochi oggi, soprattutto sapendo come è andata a finire, sosterrebbero quello che la vignetta dice esplicitamente e cioè che qualcuno possa essere mantenuto in eterno nella condizione di più o meno gradito ospite.
.
Questa vignetta è tratta dalla propaganda elettorale della Lega, di qualche anno fa. Il senso è quasi lo stesso di quella precedente: in coda nell'ambulatorio del medico, il pensionato italiano è preceduto da un cinese, una zingara, un africano e un arabo.
A parziale difesa del vignettista leghista dobbiamo dire che il gesto imperioso e prepotente dell'arabo dà alla scena un carattere simbolico. Mentre nella vignetta tedesca, gli ebrei erano comodamente seduti in tram a loro buon diritto, qui, a quanto pare, il diritto di precedenza si basa su un arbitrio.
Sembra fare la differenza, perché nel primo caso si richiedeva, come poi ci fu, una discriminazione, che subordinasse il diritto del singolo alla sua appartenenza razziale, mentre qui sembra chiedersi, seppure in termini torbidi, il rispetto delle regole.
Dunque, neanche Salvini pretenderebbe una legge che obblighi su base etnica a cedere il posto sull'autobus, o la precedenza nella coda. Ma è proprio vero?
Quando, per esempio, si chiede la precedenza per gli Italiani nell'assegnazione di un alloggio popolare, si chiede proprio questo, che il diritto di nascita prevalga su tutti gli altri requisiti che concorrono a determinare il punteggio in graduatoria.
Sembrerebbe dunque di essere rifluiti nel dominio di senso della vignetta nazista, ma proprio in questi giorni ho compilato la domanda di trasferimento in altra scuola.
Anche in questo caso si deve accedere a una graduatoria. Per la scuola, il punteggio è determinato dai titoli di studio e di merito, dai carichi di famiglia e, soprattutto, dall'anzianità di servizio.
A parità di diplomi, concorsi superati e numero e condizione dei figli, chi ha un anno in più di servizio, passa avanti.
E' evidente che il senso comune vede un analogia tra l'anzianità di servizio, che viene conteggiata e quella di cittadinanza, che non si calcola. In questo caso, il gesto imperioso dell'arabo, nella vignetta leghista, si spiega, anche se si attribuisce razzisticamente all'immigrato, perché ne è il beneficiario, un arbitrio che è in realtà fatto dallo stato che non riconosce un tuo diritto.
Bisogna vedere se l'analogia è fondata.
Si suppone che chi lavori in una qualsiasi istituzione, l'arricchisca del proprio lavoro e l'anzianità di servizio calcola la sua quota nel capitale sociale investito. Dunque la scuola, valuta i miei trent'anni di contributo, ma giustamente non si cura del fatto che mio padre o mio nonno siano o non siano stati, a loro volta, insegnanti, i loro meriti non si sommano al mio.
Certamente ognuno è titolare anche di una quota di un più vasto capitale sociale fatto di asili, ospedali, previdenza, ferrovie e di ogni altra cosa alla cui edificazione, mantenimento ed espansione, contribuisce.
Bisogna vedere come calcolare tale quota, il criterio anagrafico è fallace. Nel 1961 io ero cittadino italiano già da dieci anni, ma Mike Bongiorno, che lo diventerà solo nel 2008, aveva certamente contribuito molto più di me all'arricchimento del capitale sociale.
Dunque, se non si vogliono rendere ereditari i meriti di padri e nonni, l'unico criterio giusto resta quello del lavoro e cioè dell'anzianità contributiva, previdenziale e/o fiscale.
Ma applicare questo criterio all'assegnazione delle case popolari sarebbe disastroso, perché tale istituto è stato previsto proprio per chi, per un'infinità di ragioni, è finito ai margini dell'attività produttiva: disoccupati, invalidi, lavoratori occasionali.
Applicare questo criterio, sarebbe stravolgerne i fini. Oltretutto, si rischierebbe di aumentare la quota di assegnatari immigrati, a discapito degli italiani.
Sfumato così il diritto, dietro la proposta resta solo il razzismo.
Evidentemente la proposta da fare è un'altra: lasciare agli ultimi le case popolari e avere affitti a reale valore di mercato per chi lavora. Cioè affitti che non devono prescindere dal valore medio dei salari.
In poche parole bisogna reintrodurre l'equo canone, che fu tolto da Amato per alimentare una bolla speculativa che solo per miracolo non ha avuto l'impatto dei subprime americani.
Con l'equo canone si dà un colpo alla rendita del lavoro morto, valorizzando il lavoro vivo e si evitano al contempo le guerre tra poveri alimentate da speculazioni razziste.
giovedì 9 gennaio 2014
Critica al manifesto socialdemocratico di Mezzadra-Negri
Chi come noi non ha interessi elettorali è nella migliore posizione per riconoscere la grande importanza che avranno, nel 2014, le elezioni per il parlamento europeo. È facile prevedere, nella maggior parte dei Paesi interessati, un elevato astensionismo e una significativa affermazione di forze “euroscettiche”, unite dalla retorica del ritorno alla “sovranità nazionale”, dall’ostilità all’euro e ai “tecnocrati di Bruxelles”. Non sono buone cose, per noi. Siamo da tempo convinti che l’Europa ci sia, che tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello dell’azione governamentale e capitalistica l’integrazione abbia ormai varcato la soglia dell’irreversibilità.
L'Unione Europea è irreversibile. Chi si chiede perché, resta deluso: l'Europa c'è perché c'è. La tradizione dotta avverte, tutto ciò che è reale è razionale e il popolare proverbio conferma, cosa fatta capo ha. Ma sia Hegel che il detto fiorentino, se da un lato fanno riflettere sul fatto che ogni situazione ha una sua ragion d'essere, nulla ci dicono sulla supposta irreversibilità. Le eclissi, della ragione o della democrazia, ad esempio, sono temporanee.
Anche negli anni '30 ci fu chi, con acute analisi, sentenziò che il fascismo era irreversibile e che conveniva adattarvisi. Per un simile eccesso di realismo, Nicola Bombacci passò dagli scranni comunisti di Montecitorio al plotone di esecuzione di Dongo.
Nella crisi, un generale riallineamento dei poteri – attorno alla centralità della BCE e a quel che viene definito “federalismo esecutivo” – ha certo modificato la direzione del processo di integrazione, ma non ne ha posto in discussione la continuità.
Qui si cambia marcia, la realtà non è più giustificazione di se stessa, ma accidente transitorio. Il dirigismo tecnocratico è volto nel più positivo federalismo esecutivo, ma - zuccherino - il processo di integrazione non si è interrotto. Qui sta il trucco: il processo di integrazione non si è interrotto perché non è mai cominciato, a meno che non si pensi che il processo di integrazione consista nella pretesa di modificare per decreto le culture dei popoli. Strategia autoritaria e coloniale che, frustrando i pii desideri degli illuministi, vale per il tempo che trova.
La stessa moneta unica appare oggi consolidata dalla prospettiva dell’Unione bancaria: contestare la violenza con cui essa esprime il comando capitalistico è necessario, immaginare un ritorno alle monete nazionali significa non capire qual è oggi il terreno su cui si gioca lo scontro di classe.
Non si poteva essere più chiari: oggi l'Europa non è altro che una moneta unica e una banca centrale che la gestisce. E' di fatto tutto il potere, che ora rafforziamo integrando fortemente le banche nazionali. Al re affianchiamo una camera dei lord. Qui non si realizza nessuno scontro di classe perché le élites non si sognano di interpellare le classi.
Certo, l’Europa oggi è un’“Europa tedesca”, la sua geografia economica e politica si va riorganizzando attorno a precisi rapporti di forza e di dipendenza che si riflettono anche a livello monetario. Ma solo l’incanto neoliberale induce a scambiare l’irreversibilità del processo di integrazione con l’impossibilità di modificarne i contenuti e le direzioni, di far agire dentro lo spazio europeo la forza e la ricchezza di una nuova ipotesi costituente.
Gli autori hanno appena introdotto un principio indimostrato (l'irreversibilità dell'integrazione europea) e già vi fanno ricorso per forzare le loro conclusioni.
Abbiamo appena appurato che: l'UE è di fatto il potere di una banca privata (BCE) e che tale potere si rafforza - rafforzando il suo strumento (l'euro) - con l'unione bancaria. L'uomo della strada concluderebbe col dire che questa è sempre di più l'Europa delle banche e sempre meno l'Europa dei cittadini.
Mezzadra e Negri ne convengono, ma siccome hanno assunto l'assioma dell'irreversibilità, concludono che per ora ci teniamo l'Europa che c'è, poi la cambiamo tutta.
Tralasciando il fatto (non tralasciabile) che l'attuale forma del potere europeo è - de jure e de facto - costituente, per cui già ci muoviamo, in affanno, all'inseguimento, resta la constatazione che la proposta appare quantomeno curiosa.
E' come se, nel referendum del 1946, si fosse data l'indicazione di votare per la monarchia, perché tanto, in sede di Costituente, si sarebbe poi stabilito che il re, scelto tra i cittadini eleggibili, sarebbe stato eletto dal parlamento, e avrebbe regnato sette anni.
In termini di lotta di classe, ciò vuol dire che, se nell'attuale fase è il nostro avversario a scegliere le modalità dello scontro, a noi spetterebbe l'avvertenza di scegliere il terreno più favorevole.
Sebbene anche Mezzadra e Negri ricorrano alla locuzione lotta di classe, l'impianto del loro discorso è solidamente idealista, ancorché non rigoroso, giacché nella loro irrequieta dialettica, talvolta si privilegia l'atto, tal'altra la potenza.
Rompere questo incanto, che in Italia è come moltiplicato dalla vera e propria dittatura costituzionale sotto cui stiamo vivendo, significa oggi riscoprire lo spazio europeo come spazio di lotta, di sperimentazione e di invenzione politica. Come terreno sul quale la nuova composizione sociale dei lavoratori e dei poveri aprirà, eventualmente, una prospettiva di organizzazione politica.
Da notare, in questo passaggio, il riferimento a una vera e propria dittatura costituzionale, che qui passa per una nostra stravagante variante nazionale e non , come sarebbe doveroso dire, per diretto commissariamento delle istituzioni da parte di quel potere europeo che (per ora) dovremmo tenerci.
Compare anche uno spazio sociale europeo, antica e fumosa formulazione, con connotati non necessariamente di classe. Infatti si pongono sullo stesso piano lavoratori e generici poveri.
Nella sua lotta sociale, il lavoratore ha come controparte immediata il padrone e la sua lotta mira all'erosione dei profitti, cioè alla restituzione di (sia pur modeste) quote di plusvalore. Viceversa, la lotta del povero è sempre lotta politica, che interpella le istituzioni per sollecitarle a una più efficace funzione di ridistribuzione, ottimizzando l'impiego della fiscalità. E' la classica prospettiva socialdemocratica ed è con sollievo che apprendiamo che la prospettiva di un'organizzazione politica a ciò finalizzata, sia solo eventuale.
Aggiungiamo anche che la lotta sociale in Europa, prima dell'avvento della UE era, per qualità e quantità, in migliore salute. A quei tempi, infatti, facevano fior di scioperi anche gli operai tedeschi, convinti che il loro avversario fosse il padrone e non i loro sciuponi colleghi di Spagna, Italia e Grecia. Va da sé che tale identificazione dellavversario induceva alla maturazione di sentimenti internazionalisti di massa, che oggi ci sogniamo.
Certo, lottando sul terreno europeo, essa avrà la possibilità di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalistica. È ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico.
Chissà chi è quell'essa posta a soggetto?
La nuova (de)composizione sociale, che abbiamo visto all'opera nel recente movimento dei "forconi"? Cioè la rissa tra porzioni del corpo sociale subalterno, che si rinfacciano l'un l'altra supposti privilegi, o la lotta tra un nord che difende i suoi residui di benessere contro un sud che vuole affrancarsi dalla fame?
Oppure è l'organizzazione politica (per di più eventuale) che cercherà di districare il nodo di tali contraddizioni? La storia assumerebbe tempi ben lunghi e di opinabile evoluzione.
E in questo caso, ammesso che ci riesca, come può pensare di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalista?
Nella situazione che è data, la miglior prospettiva possibile, è evidentemente un risveglio della classe operaia cinese o indiana. Un movimento vincente di forti rivendicazioni salariali in quei quadranti aprirebbe nuovi spazi di contrattazione alla classe operaia europea. Analogamente, un buon contratto alla Renault apre le possibilità di un buon contratto Fiat. Giova, dunque a operai di Fiat e Renault, che i loro padroni siano divisi e in competizione. Nella prospettiva di unità europea che si è delineata, già si uniscono le banche, poi toccherà all'industria e (forse), infine, ai lavoratori. Fiat e Renault saranno integrate molto prima di CGIL e CGT. Che questa sia la strada dei padroni ce lo insegna la storia: Valletta uscì dalla Confindustria molto prima di Marchionne, proprio per costruire una associazione europea dei produttori e un contratto europeo dell'automobile.
Non bisogna confondere il cosmopolitismo imperialista con l'internazionalismo proletario, marciare divisi per colpire uniti.
Se il discorso, dal salario, si allarga al reddito, diventa ancora più campato in aria.
Nel conflitto che oppone lavoratori e padroni, la posta in gioco è la fetta di salari e stipendi che si taglia nella torta dei profitti. Il padrone, per recuperare profitti cercherà di ingrandire la torta, acquisendo nuove quote di mercato e, di nuovo, i lavoratori reclameranno una fetta più grande.
Viceversa, per il reddito garantito, occorre ridisegnare le fette della torta della fiscalità generale. E' da vedere se, limando qui e là, si possa ottenere la fetta necessaria. Quanto a ingrandire la torta, qui vi voglio.
E' molto difficile, nel quadro imperioso della competitività internazionale, ingrandire la torta fiscale prelevando, come si vorrebbe, dall'accumulazione capitalistica. Ci si orienterebbe, con ogni probabilità a continuare con l'attuale strategia di esproprio delle classi medie , già a livello di massima tolleranza. Ne potrebbe derivare un disastro sociale che, oltre che pericoloso per le istituzioni democratiche, sarebbe incompatibile proprio con il proposito di assicurare a tutti un reddito.
Non che non si possa, intendiamoci, prelevare fiscalmente dai profitti, ma per farlo ci vogliono gli strumenti necessari e un preciso orientamento dell'opinione pubblica.
In Italia, almeno lo strumento ce l'abbiamo: la nostra Costituzione (emendata da elementi spuri) è infatti concepita come uno strumento di democrazia progressiva.
Ci si chiede quale sarebbe la via più razionale: partendo da uno strumento giuridico già esistente, (re)suscitare il movimento di idee che ne fu alla base, oppure: prima suscitare un opportuno movimento di idee e poi lottare per ottenerne un coerente strumento giuridico?
A noi pare che le forze di destra abbiano da tempo compreso che l’irreversibilità dell’integrazione segna oggi il perimetro di ciò che è politicamente pensabile e praticabile in Europa. Attorno a un’ipotesi di sostanziale approfondimento del neoliberalismo si è ormai organizzato un blocco egemonico che comprende al proprio interno varianti anche significativamente eterogenee (dalle aperture non solo tattiche in direzione di ipotesi socialdemocratiche di Angela Merkel alla violenta stretta repressiva e conservatrice di Mariano Rajoy). Le stesse forze di destra che si presentano come “anti-europee”, quantomeno nelle loro componenti più avvertite, giocano questa opzione sul terreno europeo, puntando ad allargare gli spazi di autonomia nazionale che nella costituzione della UE sono ben presenti e recuperando su un piano meramente demagogico il risentimento e la rabbia diffusi in ampi settori della popolazione dopo anni di crisi. Il riferimento alla nazione si dimostra qui per quel che è: la trasfigurazione di un senso di impotenza in aggressività xenofoba, la difesa di interessi particolari immaginati come architravi di una “comunità di destino”.
Qui, il succo parrebbe: dato che la destra, anche quando finge di essere antieuropeista, antieuropeista non è, dobbiamo adeguarci.
Per contro la sinistra socialista, anche dove non è direttamente parte del blocco egemonico neoliberale, fatica a distinguersene in modo efficace e ad elaborare proposte programmatiche di segno chiaramente innovativo. La candidatura di Alexis Tsipras, leader di Syriza, a presidente della Commissione europea riveste in questo quadro un indubbio significato, e ha determinato in molti Paesi una positiva apertura di dibattito a sinistra, anche se in altri (primo fra tutti l’Italia) sembrano prevalere gli interessi di piccoli gruppi o “partiti”, incapaci di sviluppare un discorso politico pienamente europeo.
Questo è probabilmente il passaggio che giustifica l'intero testo: spezzare una lancia a favore di Alexis Tsipras.
Notiamo con soddisfazione che è questione riservata alla sinistra socialista, che talvolta, come onestamente si ammette, fa direttamente parte del blocco egemonico neoliberale.
Sono lieto, come comunista, di non essere interpellato, ma mi piacerebbe sapere qual'è l'indubbio significato che assume la sua candidatura. Non vorrei che, dopo l'irreversibilità, ci fosse un secondo assioma da accettare per fede.
Se così stanno le cose, perché ci sembrano importanti le elezioni europee del prossimo maggio? In primo luogo perché tanto il relativo rafforzamento dei poteri del parlamento quanto l’indicazione da parte dei partiti di un candidato alla presidenza della Commissione fanno necessariamente della campagna elettorale un momento di dibattito europeo, in cui le diverse forze saranno costrette a definire e ad enunciare quantomeno un abbozzo di programma politico europeo. A noi pare dunque che si presenti qui un’occasione di intervento politico per tutti coloro che si battono per rompere tanto l’incanto neoliberale quanto il suo corollario, secondo cui l’unica opposizione possibile alla forma attuale dell’Unione Europea è il “populismo” anti-europeo.
Il risibile rafforzamento dei poteri, per il quale ci sono voluti 35 anni, del parlamento europeo, può ben dirsi relativo. Relativo al fatto che non ha nessun potere nella guida dell'Unione.
E' ben strano che ogni opposizione a questa federazione autoritaria, senza alcun controllo democratico sull'esecutivo, subalterna alla governance di una banca privata, debba essere sempre etichettata come populista. Non si può essere, magari, popolari?
Non escludiamo in linea di principio che questo intervento possa trovare interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale. Ma quello a cui pensiamo è prima di tutto un intervento di movimento, capace di radicarsi all’interno delle lotte che negli ultimi mesi si sono sviluppate, sia pure in forme diverse, in molti Paesi europei (cominciando a investire con significativa intensità anche la Germania).
Gli interessi elettorali sono esclusi fin dall'incipit, ma questo è un appello per un cartello elettorale in appoggio alla candidatura di Tsipras. E' dunque certo che si cercano interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale, anche se in questo passaggio è meglio sputarci sopra (movimentisticamente, non populisticamente, eh?) per strizzare l'occhio ai movimenti, di spezzoni dei quali si vorrebbe recuperare un pronunciamento elettorale.
Decisivo è oggi riqualificare un discorso di programma, e solo dentro e contro lo spazio europeo questo è possibile.
Ecco lo slogan elettorale: dentro e contro. Gli ossimori fanno bene alla poesia, ma riducono a caricatura la politica.
Non v’è oggi da indagare sociologicamente, magari all’ombra di qualche forcone, la “composizione tecnica di classe” nell’attesa messianica della “composizione politica” adeguata. Così come oggi non c’è da attendersi che si diano movimenti di classe vincenti che non abbiano interiorizzato la dimensione europea.
Prendiamoli come due comandamenti e non chiediamoci il perché.
Non sarebbe la prima volta, anche nella recente storia delle lotte, che taluni movimenti fossero obbligati dal modificarsi del quadro politico a ripiegare da grandi esperienze locali ad asfittiche chiusure settarie.
Chissà a chi pensano.
Si tratta di ricostruire immediatamente un orizzonte generale di trasformazione, di elaborare collettivamente una nuova grammatica politica e un insieme di elementi di programma che possano aggregare forza e potere dall’interno delle lotte, contrapponendosi alle derive che abbiamo visto in Italia nelle scorse settimane, dove non a caso il simbolo unificante è stato il tricolore. Qui e ora, lo ripetiamo, l’Europa ci appare il solo spazio in cui questo sia possibile.
Coerenti con il loro comandamento, non indagano sociologicamente e se la cavano con una battuta, dimenticando che il tricolore fu anche il simbolo unificante del CLN. E che le lotte contro colonialismo e imperialismo hanno sempre anche implicato una questione nazionale.
Un punto ci sembra particolarmente importante. La violenza della crisi farà sentire ancora a lungo i suoi effetti. All’orizzonte non c’è la “ripresa”, se per ripresa intendiamo un significativo riassorbimento della disoccupazione, la diminuzione della precarietà e un relativo riequilibrio dei redditi. Tuttavia, un ulteriore approfondimento della crisi sembra da escludere. L’accordo sul salario minimo su cui si è fondata la nuova grande coalizione in Germania pare piuttosto indicare un punto di mediazione sul terreno del salario sociale che può funzionare – a geometria e geografia variabili – come criterio di riferimento generale per la definizione di uno scenario di relativa stabilità capitalistica in Europa.
Francamente non si comprende perché, in uno scenario costante di scarsità delle risorse, certe scelte tedesche (in gran parte già presenti e presenti in altri paesi UE) possano diventare il modello a cui uniformarsi. Sul welfare europeo, la Germania si è espressa in maniera inequivocabile in Grecia e a Cipro. Per i tedeschi, ogni paese europeo dovrebbe fare unicamente ciò che può permettersi.
Ma anche ammettendo di poter aspirare a un sistema di reddito sociale (si tenga presente, come punto di riferimento, l'ammontare delle nostre pensioni minime e di quelle d'invalidità), sarebbe conveniente scambiarlo con le normative sociali nazionali? Gli stessi autori ci avvertono del pericolo:
È uno scenario, non è la realtà attuale, ed è uno scenario di relativa stabilità capitalistica. Sotto il profilo della forza lavoro e delle forme della cooperazione sociale, questo scenario assume come dati di partenza l’estensione e l’intensificazione della precarietà, la mobilità all’interno dello spazio europeo e dall’esterno, il declassamento di quote rilevanti di lavoro cognitivo e la formazione di nuove gerarchie all’interno di quest’ultimo, che si sono determinati nella crisi. Più in generale lo scenario di relativa stabilità di cui parliamo registra la piena egemonia di un capitale le cui operazioni fondamentali hanno una natura estrattiva, combinano cioè alla persistenza del tradizionale sfruttamento un intervento di “prelievo” diretto della ricchezza sociale (attraverso dispositivi finanziari ma anche assumendo come terreno privilegiato di valorizzazione “beni comuni” come, fra gli altri, la salute e l’istruzione).Non a caso i movimenti hanno compreso che su questo terreno si danno le lotte capaci di colpire il nuovo regime di accumulazione, come hanno mostrato in Italia il 19 ottobre.
Questo è lo scenario. I padroni sono forti e uniti, il movimento è, in tutt'Europa più debole di dieci anni fa e quote di ceti popolari vengono crescentemente attratti dalle sirene xenofobe e neofasciste.
Val la pena di insistere con questo gioco?
In Grecia un fortissimo movimento di protesta è stato sconfitto da un governo che aveva una sola arma: l'euro.
Cosa avrebbero fatto i padroni greci se avessero dovuto affrontare scioperi di 48 ore con i tasca le dracme?
Che effetti avrebbe avuto la lotta del popolo greco in Italia, Spagna, Portogallo e persino in Francia?
Dentro questo scenario si tratta ovviamente di guardare alla specificità delle lotte che si sviluppano, di analizzarne l’eterogeneità e di misurarne l’efficacia in contesti politici, sociali e territoriali che possono essere anche molto diversi. Ma si tratta anche di porre il problema del modo in cui possono convergere, moltiplicando la loro stessa potenza “locale”, entro la cornice europea. La delineazione di nuovi elementi di programma può prendere intanto la forma della scrittura collettiva di una serie di principi inderogabili, sul terreno del welfare e del lavoro, della fiscalità e della mobilità, delle forme di vita e della precarietà, su tutti i terreni su cui si sono espressi e si esprimono i movimenti in Europa. Non è una carta dei diritti scritta dal basso, e da proporre a qualche assise istituzionale, quella a cui pensiamo: è piuttosto un esercizio collettivo di definizione programmatica che, come comincia a mostrare in queste settimane la stesura della “Carta di Lampedusa” per quel che riguarda la migrazione e l’asilo, può diventare strumento di organizzazione a livello europeo. Senza dimenticare che in questo lavoro possono sorgere impulsi decisivi, fin da subito, per la costruzione di coalizioni di forze locali ed europee, sindacali e mutualistiche, in movimento.
Ecco, infine la proposta concreta, scrivere per l'ennesima volta la carta dei diritti negati. Come se non fosse già marchiata a fuoco sulla pelle e nel cuore di tutti gli sfruttati del mondo.
Di questa letterina densa di principi apoditticamente indimostrati, che trovano il loro unico fondamento nell'ossessività con cui l'apparato propagandistico del nemico di classe ce li ha ripetuti, potevamo anche farne a meno.
E facevamo a meno anche dell'ennesima riproposizione del programma, ormai bolso, della Seconda Internazionale: gran cagnara per modesti e miserabili risultati.
L'Unione Europea è irreversibile. Chi si chiede perché, resta deluso: l'Europa c'è perché c'è. La tradizione dotta avverte, tutto ciò che è reale è razionale e il popolare proverbio conferma, cosa fatta capo ha. Ma sia Hegel che il detto fiorentino, se da un lato fanno riflettere sul fatto che ogni situazione ha una sua ragion d'essere, nulla ci dicono sulla supposta irreversibilità. Le eclissi, della ragione o della democrazia, ad esempio, sono temporanee.
Anche negli anni '30 ci fu chi, con acute analisi, sentenziò che il fascismo era irreversibile e che conveniva adattarvisi. Per un simile eccesso di realismo, Nicola Bombacci passò dagli scranni comunisti di Montecitorio al plotone di esecuzione di Dongo.
Nella crisi, un generale riallineamento dei poteri – attorno alla centralità della BCE e a quel che viene definito “federalismo esecutivo” – ha certo modificato la direzione del processo di integrazione, ma non ne ha posto in discussione la continuità.
Qui si cambia marcia, la realtà non è più giustificazione di se stessa, ma accidente transitorio. Il dirigismo tecnocratico è volto nel più positivo federalismo esecutivo, ma - zuccherino - il processo di integrazione non si è interrotto. Qui sta il trucco: il processo di integrazione non si è interrotto perché non è mai cominciato, a meno che non si pensi che il processo di integrazione consista nella pretesa di modificare per decreto le culture dei popoli. Strategia autoritaria e coloniale che, frustrando i pii desideri degli illuministi, vale per il tempo che trova.
La stessa moneta unica appare oggi consolidata dalla prospettiva dell’Unione bancaria: contestare la violenza con cui essa esprime il comando capitalistico è necessario, immaginare un ritorno alle monete nazionali significa non capire qual è oggi il terreno su cui si gioca lo scontro di classe.
Non si poteva essere più chiari: oggi l'Europa non è altro che una moneta unica e una banca centrale che la gestisce. E' di fatto tutto il potere, che ora rafforziamo integrando fortemente le banche nazionali. Al re affianchiamo una camera dei lord. Qui non si realizza nessuno scontro di classe perché le élites non si sognano di interpellare le classi.
Certo, l’Europa oggi è un’“Europa tedesca”, la sua geografia economica e politica si va riorganizzando attorno a precisi rapporti di forza e di dipendenza che si riflettono anche a livello monetario. Ma solo l’incanto neoliberale induce a scambiare l’irreversibilità del processo di integrazione con l’impossibilità di modificarne i contenuti e le direzioni, di far agire dentro lo spazio europeo la forza e la ricchezza di una nuova ipotesi costituente.
Gli autori hanno appena introdotto un principio indimostrato (l'irreversibilità dell'integrazione europea) e già vi fanno ricorso per forzare le loro conclusioni.
Abbiamo appena appurato che: l'UE è di fatto il potere di una banca privata (BCE) e che tale potere si rafforza - rafforzando il suo strumento (l'euro) - con l'unione bancaria. L'uomo della strada concluderebbe col dire che questa è sempre di più l'Europa delle banche e sempre meno l'Europa dei cittadini.
Mezzadra e Negri ne convengono, ma siccome hanno assunto l'assioma dell'irreversibilità, concludono che per ora ci teniamo l'Europa che c'è, poi la cambiamo tutta.
Tralasciando il fatto (non tralasciabile) che l'attuale forma del potere europeo è - de jure e de facto - costituente, per cui già ci muoviamo, in affanno, all'inseguimento, resta la constatazione che la proposta appare quantomeno curiosa.
E' come se, nel referendum del 1946, si fosse data l'indicazione di votare per la monarchia, perché tanto, in sede di Costituente, si sarebbe poi stabilito che il re, scelto tra i cittadini eleggibili, sarebbe stato eletto dal parlamento, e avrebbe regnato sette anni.
In termini di lotta di classe, ciò vuol dire che, se nell'attuale fase è il nostro avversario a scegliere le modalità dello scontro, a noi spetterebbe l'avvertenza di scegliere il terreno più favorevole.
Sebbene anche Mezzadra e Negri ricorrano alla locuzione lotta di classe, l'impianto del loro discorso è solidamente idealista, ancorché non rigoroso, giacché nella loro irrequieta dialettica, talvolta si privilegia l'atto, tal'altra la potenza.
Rompere questo incanto, che in Italia è come moltiplicato dalla vera e propria dittatura costituzionale sotto cui stiamo vivendo, significa oggi riscoprire lo spazio europeo come spazio di lotta, di sperimentazione e di invenzione politica. Come terreno sul quale la nuova composizione sociale dei lavoratori e dei poveri aprirà, eventualmente, una prospettiva di organizzazione politica.
Da notare, in questo passaggio, il riferimento a una vera e propria dittatura costituzionale, che qui passa per una nostra stravagante variante nazionale e non , come sarebbe doveroso dire, per diretto commissariamento delle istituzioni da parte di quel potere europeo che (per ora) dovremmo tenerci.
Compare anche uno spazio sociale europeo, antica e fumosa formulazione, con connotati non necessariamente di classe. Infatti si pongono sullo stesso piano lavoratori e generici poveri.
Nella sua lotta sociale, il lavoratore ha come controparte immediata il padrone e la sua lotta mira all'erosione dei profitti, cioè alla restituzione di (sia pur modeste) quote di plusvalore. Viceversa, la lotta del povero è sempre lotta politica, che interpella le istituzioni per sollecitarle a una più efficace funzione di ridistribuzione, ottimizzando l'impiego della fiscalità. E' la classica prospettiva socialdemocratica ed è con sollievo che apprendiamo che la prospettiva di un'organizzazione politica a ciò finalizzata, sia solo eventuale.
Aggiungiamo anche che la lotta sociale in Europa, prima dell'avvento della UE era, per qualità e quantità, in migliore salute. A quei tempi, infatti, facevano fior di scioperi anche gli operai tedeschi, convinti che il loro avversario fosse il padrone e non i loro sciuponi colleghi di Spagna, Italia e Grecia. Va da sé che tale identificazione dellavversario induceva alla maturazione di sentimenti internazionalisti di massa, che oggi ci sogniamo.
Certo, lottando sul terreno europeo, essa avrà la possibilità di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalistica. È ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico.
Chissà chi è quell'essa posta a soggetto?
La nuova (de)composizione sociale, che abbiamo visto all'opera nel recente movimento dei "forconi"? Cioè la rissa tra porzioni del corpo sociale subalterno, che si rinfacciano l'un l'altra supposti privilegi, o la lotta tra un nord che difende i suoi residui di benessere contro un sud che vuole affrancarsi dalla fame?
Oppure è l'organizzazione politica (per di più eventuale) che cercherà di districare il nodo di tali contraddizioni? La storia assumerebbe tempi ben lunghi e di opinabile evoluzione.
E in questo caso, ammesso che ci riesca, come può pensare di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalista?
Nella situazione che è data, la miglior prospettiva possibile, è evidentemente un risveglio della classe operaia cinese o indiana. Un movimento vincente di forti rivendicazioni salariali in quei quadranti aprirebbe nuovi spazi di contrattazione alla classe operaia europea. Analogamente, un buon contratto alla Renault apre le possibilità di un buon contratto Fiat. Giova, dunque a operai di Fiat e Renault, che i loro padroni siano divisi e in competizione. Nella prospettiva di unità europea che si è delineata, già si uniscono le banche, poi toccherà all'industria e (forse), infine, ai lavoratori. Fiat e Renault saranno integrate molto prima di CGIL e CGT. Che questa sia la strada dei padroni ce lo insegna la storia: Valletta uscì dalla Confindustria molto prima di Marchionne, proprio per costruire una associazione europea dei produttori e un contratto europeo dell'automobile.
Non bisogna confondere il cosmopolitismo imperialista con l'internazionalismo proletario, marciare divisi per colpire uniti.
Se il discorso, dal salario, si allarga al reddito, diventa ancora più campato in aria.
Nel conflitto che oppone lavoratori e padroni, la posta in gioco è la fetta di salari e stipendi che si taglia nella torta dei profitti. Il padrone, per recuperare profitti cercherà di ingrandire la torta, acquisendo nuove quote di mercato e, di nuovo, i lavoratori reclameranno una fetta più grande.
Viceversa, per il reddito garantito, occorre ridisegnare le fette della torta della fiscalità generale. E' da vedere se, limando qui e là, si possa ottenere la fetta necessaria. Quanto a ingrandire la torta, qui vi voglio.
E' molto difficile, nel quadro imperioso della competitività internazionale, ingrandire la torta fiscale prelevando, come si vorrebbe, dall'accumulazione capitalistica. Ci si orienterebbe, con ogni probabilità a continuare con l'attuale strategia di esproprio delle classi medie , già a livello di massima tolleranza. Ne potrebbe derivare un disastro sociale che, oltre che pericoloso per le istituzioni democratiche, sarebbe incompatibile proprio con il proposito di assicurare a tutti un reddito.
Non che non si possa, intendiamoci, prelevare fiscalmente dai profitti, ma per farlo ci vogliono gli strumenti necessari e un preciso orientamento dell'opinione pubblica.
In Italia, almeno lo strumento ce l'abbiamo: la nostra Costituzione (emendata da elementi spuri) è infatti concepita come uno strumento di democrazia progressiva.
Ci si chiede quale sarebbe la via più razionale: partendo da uno strumento giuridico già esistente, (re)suscitare il movimento di idee che ne fu alla base, oppure: prima suscitare un opportuno movimento di idee e poi lottare per ottenerne un coerente strumento giuridico?
A noi pare che le forze di destra abbiano da tempo compreso che l’irreversibilità dell’integrazione segna oggi il perimetro di ciò che è politicamente pensabile e praticabile in Europa. Attorno a un’ipotesi di sostanziale approfondimento del neoliberalismo si è ormai organizzato un blocco egemonico che comprende al proprio interno varianti anche significativamente eterogenee (dalle aperture non solo tattiche in direzione di ipotesi socialdemocratiche di Angela Merkel alla violenta stretta repressiva e conservatrice di Mariano Rajoy). Le stesse forze di destra che si presentano come “anti-europee”, quantomeno nelle loro componenti più avvertite, giocano questa opzione sul terreno europeo, puntando ad allargare gli spazi di autonomia nazionale che nella costituzione della UE sono ben presenti e recuperando su un piano meramente demagogico il risentimento e la rabbia diffusi in ampi settori della popolazione dopo anni di crisi. Il riferimento alla nazione si dimostra qui per quel che è: la trasfigurazione di un senso di impotenza in aggressività xenofoba, la difesa di interessi particolari immaginati come architravi di una “comunità di destino”.
Qui, il succo parrebbe: dato che la destra, anche quando finge di essere antieuropeista, antieuropeista non è, dobbiamo adeguarci.
Per contro la sinistra socialista, anche dove non è direttamente parte del blocco egemonico neoliberale, fatica a distinguersene in modo efficace e ad elaborare proposte programmatiche di segno chiaramente innovativo. La candidatura di Alexis Tsipras, leader di Syriza, a presidente della Commissione europea riveste in questo quadro un indubbio significato, e ha determinato in molti Paesi una positiva apertura di dibattito a sinistra, anche se in altri (primo fra tutti l’Italia) sembrano prevalere gli interessi di piccoli gruppi o “partiti”, incapaci di sviluppare un discorso politico pienamente europeo.
Questo è probabilmente il passaggio che giustifica l'intero testo: spezzare una lancia a favore di Alexis Tsipras.
Notiamo con soddisfazione che è questione riservata alla sinistra socialista, che talvolta, come onestamente si ammette, fa direttamente parte del blocco egemonico neoliberale.
Sono lieto, come comunista, di non essere interpellato, ma mi piacerebbe sapere qual'è l'indubbio significato che assume la sua candidatura. Non vorrei che, dopo l'irreversibilità, ci fosse un secondo assioma da accettare per fede.
Se così stanno le cose, perché ci sembrano importanti le elezioni europee del prossimo maggio? In primo luogo perché tanto il relativo rafforzamento dei poteri del parlamento quanto l’indicazione da parte dei partiti di un candidato alla presidenza della Commissione fanno necessariamente della campagna elettorale un momento di dibattito europeo, in cui le diverse forze saranno costrette a definire e ad enunciare quantomeno un abbozzo di programma politico europeo. A noi pare dunque che si presenti qui un’occasione di intervento politico per tutti coloro che si battono per rompere tanto l’incanto neoliberale quanto il suo corollario, secondo cui l’unica opposizione possibile alla forma attuale dell’Unione Europea è il “populismo” anti-europeo.
Il risibile rafforzamento dei poteri, per il quale ci sono voluti 35 anni, del parlamento europeo, può ben dirsi relativo. Relativo al fatto che non ha nessun potere nella guida dell'Unione.
E' ben strano che ogni opposizione a questa federazione autoritaria, senza alcun controllo democratico sull'esecutivo, subalterna alla governance di una banca privata, debba essere sempre etichettata come populista. Non si può essere, magari, popolari?
Non escludiamo in linea di principio che questo intervento possa trovare interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale. Ma quello a cui pensiamo è prima di tutto un intervento di movimento, capace di radicarsi all’interno delle lotte che negli ultimi mesi si sono sviluppate, sia pure in forme diverse, in molti Paesi europei (cominciando a investire con significativa intensità anche la Germania).
Gli interessi elettorali sono esclusi fin dall'incipit, ma questo è un appello per un cartello elettorale in appoggio alla candidatura di Tsipras. E' dunque certo che si cercano interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale, anche se in questo passaggio è meglio sputarci sopra (movimentisticamente, non populisticamente, eh?) per strizzare l'occhio ai movimenti, di spezzoni dei quali si vorrebbe recuperare un pronunciamento elettorale.
Decisivo è oggi riqualificare un discorso di programma, e solo dentro e contro lo spazio europeo questo è possibile.
Ecco lo slogan elettorale: dentro e contro. Gli ossimori fanno bene alla poesia, ma riducono a caricatura la politica.
Non v’è oggi da indagare sociologicamente, magari all’ombra di qualche forcone, la “composizione tecnica di classe” nell’attesa messianica della “composizione politica” adeguata. Così come oggi non c’è da attendersi che si diano movimenti di classe vincenti che non abbiano interiorizzato la dimensione europea.
Prendiamoli come due comandamenti e non chiediamoci il perché.
Non sarebbe la prima volta, anche nella recente storia delle lotte, che taluni movimenti fossero obbligati dal modificarsi del quadro politico a ripiegare da grandi esperienze locali ad asfittiche chiusure settarie.
Chissà a chi pensano.
Si tratta di ricostruire immediatamente un orizzonte generale di trasformazione, di elaborare collettivamente una nuova grammatica politica e un insieme di elementi di programma che possano aggregare forza e potere dall’interno delle lotte, contrapponendosi alle derive che abbiamo visto in Italia nelle scorse settimane, dove non a caso il simbolo unificante è stato il tricolore. Qui e ora, lo ripetiamo, l’Europa ci appare il solo spazio in cui questo sia possibile.
Coerenti con il loro comandamento, non indagano sociologicamente e se la cavano con una battuta, dimenticando che il tricolore fu anche il simbolo unificante del CLN. E che le lotte contro colonialismo e imperialismo hanno sempre anche implicato una questione nazionale.
Un punto ci sembra particolarmente importante. La violenza della crisi farà sentire ancora a lungo i suoi effetti. All’orizzonte non c’è la “ripresa”, se per ripresa intendiamo un significativo riassorbimento della disoccupazione, la diminuzione della precarietà e un relativo riequilibrio dei redditi. Tuttavia, un ulteriore approfondimento della crisi sembra da escludere. L’accordo sul salario minimo su cui si è fondata la nuova grande coalizione in Germania pare piuttosto indicare un punto di mediazione sul terreno del salario sociale che può funzionare – a geometria e geografia variabili – come criterio di riferimento generale per la definizione di uno scenario di relativa stabilità capitalistica in Europa.
Francamente non si comprende perché, in uno scenario costante di scarsità delle risorse, certe scelte tedesche (in gran parte già presenti e presenti in altri paesi UE) possano diventare il modello a cui uniformarsi. Sul welfare europeo, la Germania si è espressa in maniera inequivocabile in Grecia e a Cipro. Per i tedeschi, ogni paese europeo dovrebbe fare unicamente ciò che può permettersi.
Ma anche ammettendo di poter aspirare a un sistema di reddito sociale (si tenga presente, come punto di riferimento, l'ammontare delle nostre pensioni minime e di quelle d'invalidità), sarebbe conveniente scambiarlo con le normative sociali nazionali? Gli stessi autori ci avvertono del pericolo:
È uno scenario, non è la realtà attuale, ed è uno scenario di relativa stabilità capitalistica. Sotto il profilo della forza lavoro e delle forme della cooperazione sociale, questo scenario assume come dati di partenza l’estensione e l’intensificazione della precarietà, la mobilità all’interno dello spazio europeo e dall’esterno, il declassamento di quote rilevanti di lavoro cognitivo e la formazione di nuove gerarchie all’interno di quest’ultimo, che si sono determinati nella crisi. Più in generale lo scenario di relativa stabilità di cui parliamo registra la piena egemonia di un capitale le cui operazioni fondamentali hanno una natura estrattiva, combinano cioè alla persistenza del tradizionale sfruttamento un intervento di “prelievo” diretto della ricchezza sociale (attraverso dispositivi finanziari ma anche assumendo come terreno privilegiato di valorizzazione “beni comuni” come, fra gli altri, la salute e l’istruzione).Non a caso i movimenti hanno compreso che su questo terreno si danno le lotte capaci di colpire il nuovo regime di accumulazione, come hanno mostrato in Italia il 19 ottobre.
Questo è lo scenario. I padroni sono forti e uniti, il movimento è, in tutt'Europa più debole di dieci anni fa e quote di ceti popolari vengono crescentemente attratti dalle sirene xenofobe e neofasciste.
Val la pena di insistere con questo gioco?
In Grecia un fortissimo movimento di protesta è stato sconfitto da un governo che aveva una sola arma: l'euro.
Cosa avrebbero fatto i padroni greci se avessero dovuto affrontare scioperi di 48 ore con i tasca le dracme?
Che effetti avrebbe avuto la lotta del popolo greco in Italia, Spagna, Portogallo e persino in Francia?
Dentro questo scenario si tratta ovviamente di guardare alla specificità delle lotte che si sviluppano, di analizzarne l’eterogeneità e di misurarne l’efficacia in contesti politici, sociali e territoriali che possono essere anche molto diversi. Ma si tratta anche di porre il problema del modo in cui possono convergere, moltiplicando la loro stessa potenza “locale”, entro la cornice europea. La delineazione di nuovi elementi di programma può prendere intanto la forma della scrittura collettiva di una serie di principi inderogabili, sul terreno del welfare e del lavoro, della fiscalità e della mobilità, delle forme di vita e della precarietà, su tutti i terreni su cui si sono espressi e si esprimono i movimenti in Europa. Non è una carta dei diritti scritta dal basso, e da proporre a qualche assise istituzionale, quella a cui pensiamo: è piuttosto un esercizio collettivo di definizione programmatica che, come comincia a mostrare in queste settimane la stesura della “Carta di Lampedusa” per quel che riguarda la migrazione e l’asilo, può diventare strumento di organizzazione a livello europeo. Senza dimenticare che in questo lavoro possono sorgere impulsi decisivi, fin da subito, per la costruzione di coalizioni di forze locali ed europee, sindacali e mutualistiche, in movimento.
Ecco, infine la proposta concreta, scrivere per l'ennesima volta la carta dei diritti negati. Come se non fosse già marchiata a fuoco sulla pelle e nel cuore di tutti gli sfruttati del mondo.
Di questa letterina densa di principi apoditticamente indimostrati, che trovano il loro unico fondamento nell'ossessività con cui l'apparato propagandistico del nemico di classe ce li ha ripetuti, potevamo anche farne a meno.
E facevamo a meno anche dell'ennesima riproposizione del programma, ormai bolso, della Seconda Internazionale: gran cagnara per modesti e miserabili risultati.
Iscriviti a:
Post (Atom)