In buona o cattiva fede si sono sollevate critiche su chi, impegnato in politica, ha partecipato alle esequie di Prospero Gallinari.
I bersagli di tali critiche si sono affrettati a spiegare che quell'estremo saluto era stato dettato da ragioni affettive e non intendeva esprimere una (tardiva) solidarietà con il progetto politico praticato, a suo tempo, dallo scomparso.
Qualche illuminato potrebbe però affermare che il personale è politico e che dunque la distinzione addotta non è accettabile.
Concordo, malgrado l'amicizia sodale di gioventù, Nenni non avrebbe mai partecipato ai funerali di Mussolini, né Togliatti avrebbe preso parte a quelli di Bombacci.
Evidentemente, nel corso dell'esistenza si possono compiere scelte che scavano un solco definitivo, tra amici di un tempo e tali da destituire, retroattivamente, ogni ragione dell'antica amicizia.
Così si vorrebbe fosse anche in questo caso: la violenza praticata da Gallinari dovrebbe renderlo distante, estraneo e ostile a chi, oggi, si dichiara comunista militante.
Questa affermazione, talmente condivisa da parere lapalissiana, poggia, in realtà, sulla convinzione che, per qualche strana ragione, i comunisti tutti condividano il dogma del rifiuto totale e incondizionato del ricorso alla violenza.
Non è così, giacché è evidente come, nel giudicar la storia, non ci sia comunista che non identifichi la Rivoluzione Francese, quella d'Ottobre, o la Resistenza come sanguinosi fatti d'arme, ma anche, al contempo, come giganteschi passi avanti dell'umanità in direzione della libertà, del progresso e dell'emancipazione delle masse.
Pensare che ci sia un crinale temporale (un dopocristo alla Marchionne) dopo il quale la violenza sia stata licenziata dal suo ruolo di levatrice della storia è un insulto all'intelligenza che utilizziamo per mascherare la nostra umanissima preferenza per il quieto vivere.
Che si possa esser pacifici è fuor di dubbio, ma se un giorno si dovessero presentarsi circostanze storiche analoghe a quelle che portarono agli eventi storici sunnominati, nascondersi dietro un acritico pacifismo non sarebbe altro che opportunismo ipocrita e codardo. Questo i comunisti lo sanno, o dovrebbero saperlo.
Vengono, infatti, momenti della storia in cui si deve scegliere da che parte stare ed è inammissibile la neutralità.
Ci si aspetta, però, che simili eventi siano accompagnati da circostanze che rappresentino di per se stesse un criterio di evidenza che faciliti, o addirittura imponga, la scelta.
Ma individuare in che consistano tali evidenze, non è cosa facile.
Se, per esempio, esaminiamo gli ultimi fatti in cui la stampa internazionale ha sostenuto, in quanto giuste, ribellioni anche violente contro il potere costituito (Libia, Siria), notiamo che esse hanno meritato tale giudizio solo quando hanno coinvolto un ampio fronte sociale.
Fino a quando l'opposizione a Gheddafi e ad Assad era appannaggio di gruppi marginali, il regime dei due tiranni godeva della stima dell'occidente e ogni tentativo di lotta armata sarebbe stato considerato terrorismo, come accade, ad esempio, per i curdi della Turchia.
Una lettura superficiale dei fatti suggerisce che il criterio di evidenza giustificante la ribellione risieda nell'indignazione, cioè in una scelta morale che diventa maggioritaria.
La morale è, fin dal tempo delle guerre di religione, il cavallo di battaglia della borghesia, e infatti queste rivoluzioni coinvolgono ampiamente le borghesie nazionali e sono sostenute dalla borghesia internazionale.
Anche nel 1943, dopo tutto, il cambio di fronte della borghesia italiana si rivelò dirimente. Prima, quando l'antifascismo era limitato all'opposizione di classe, comunisti e socialisti venivano condannati a migliaia di anni di galera nell'indifferenza - o soddisfazione - generale che gratifica le imprese di esaltati e terroristi.
Un criterio semplice di evidenza che giustifichi ribellione e violenza lo abbiamo dunque trovato: il coinvolgimento, se non addirittura l'egemonia, della borghesia, che in tal modo continuerebbe a svolgere la funzione svolta nel 1789.
Non ci si può più sbagliare, anche di fronte a involuzioni autoritarie dello stato, non si prende il fucile finché non ne prenda l'iniziativa la borghesia. Solo allora, saremo certi di essere nel giusto.
Naturalmente, un simile punto di vista, che sottintende la fine della storia decretata da Hegel e ribadita da Fukujama, non può essere accettato dai comunisti.
La Rivoluzione d'Ottobre, per il solo fatto di esserci stata, e a prescindere dai suoi esiti, dimostra che le cose non stanno così.
Va dunque cercato altrove il criterio dirimente che giustifica l'uso della violenza contro il potere costituito.
Nel 1946, a pochi chilometri di distanza, un guerrigliero comunista poteva essere considerato un eroe o un criminale: eroe, se era un partigiano jugoslavo di Tito; criminale, se era un partigiano greco di Marcos.
Entrambi si erano ribellati alla spartizione decisa a Yalta e avevano lottato per l'autodeterminazione dei propri popoli, ma uno aveva vinto e l'altro aveva perduto.
Ecco quindi il criterio. Naturalmente lo stravagante latitudinarismo che muta, a così poca distanza, un giudizio morale, occulta in realtà la diversità dei rapporti di classe che si sono istituiti nei due paesi balcanici. Unicamente ciò determina la polarizzazione del giudizio a fronte di un'analogia di comportamenti.
Naturalmente la differenza degli esiti non va imputata alla fatalità, ma ad errori di valutazione dei rapporti di forza, che avrebbero dovuto determinare la scelta di altri, più adeguati, livelli di scontro.
Sono errori che possono determinare conseguenze gravissime e quindi colpe oggettive, da condannare con determinazione.
Ai tempi della III Internazionale la condanna della colpa oggettiva prescindeva dalla valutazione delle intenzioni soggettive. Su questo presupposto si basarono le purghe staliniane che ancora ci vengono rimproverate da chi ci rimprovera di andare ai funerali di Gallinari.
Noi, invece, almeno questo problema l'abbiamo superato e sappiamo separare le colpe oggettive di Prospero dalle sue intenzioni e dai suoi ideali.
Che sono i nostri.
Noi, invece, almeno questo problema l'abbiamo superato e sappiamo separare le colpe oggettive di Prospero dalle sue intenzioni e dai suoi ideali.
Che sono i nostri.
Mi chiedo quanto del non essere padri, mariti ed in fondo uomini, quanto del non aver avuto coraggio, o la forza, o aver applicato la leale pigrizia di chi vuol conservare solo la personale superbia, ha contribuito a trasformare quelle braccia tese, che per tutti sono state mani aperte di bambini, in pugni chiusi.
RispondiEliminaGuardando quelle braccia, quegli sguardi, ma anche gli orfani e le vedove di tante assurde rivoluzioni, mi acquieto pensando ad un Cristo che ha reso rededentibile anche tali gesta.
marco.uno@libero.it
giudizio rispettabile e dettato da sentimenti certamente nobili, ma forse un po' atipici per il lettore medio di un blog come questo. ma omnia munda mundis.
Eliminala ringrazio per l'attenzione, gradirò altre sue osservazioni.