Chi come noi non ha interessi elettorali è nella migliore posizione per riconoscere la grande importanza che avranno, nel 2014, le elezioni per il parlamento europeo. È facile prevedere, nella maggior parte dei Paesi interessati, un elevato astensionismo e una significativa affermazione di forze “euroscettiche”, unite dalla retorica del ritorno alla “sovranità nazionale”, dall’ostilità all’euro e ai “tecnocrati di Bruxelles”. Non sono buone cose, per noi. Siamo da tempo convinti che l’Europa ci sia, che tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello dell’azione governamentale e capitalistica l’integrazione abbia ormai varcato la soglia dell’irreversibilità.
L'Unione Europea è irreversibile. Chi si chiede perché, resta deluso: l'Europa c'è perché c'è. La tradizione dotta avverte,
tutto ciò che è reale è razionale e il popolare proverbio conferma,
cosa fatta capo ha. Ma sia Hegel che il detto fiorentino, se da un lato fanno riflettere sul fatto che ogni situazione ha una sua ragion d'essere, nulla ci dicono sulla supposta
irreversibilità. Le eclissi, della ragione o della democrazia, ad esempio, sono temporanee.
Anche negli anni '30 ci fu chi, con acute analisi, sentenziò che il fascismo era irreversibile e che conveniva adattarvisi. Per un simile eccesso di realismo, Nicola Bombacci passò dagli scranni comunisti di Montecitorio al plotone di esecuzione di Dongo.
Nella crisi, un generale riallineamento dei poteri – attorno alla centralità della BCE e a quel che viene definito “federalismo esecutivo” – ha certo modificato la direzione del processo di integrazione, ma non ne ha posto in discussione la continuità.
Qui si cambia marcia, la realtà non è più giustificazione di se stessa, ma accidente transitorio. Il
dirigismo tecnocratico è volto nel più positivo
federalismo esecutivo, ma - zuccherino - il processo di integrazione non si è interrotto. Qui sta il trucco: il processo di integrazione non si è interrotto perché non è mai cominciato, a meno che non si pensi che il processo di integrazione consista nella pretesa di modificare per decreto le culture dei popoli. Strategia autoritaria e coloniale che, frustrando i pii desideri degli illuministi, vale per il tempo che trova.
La stessa moneta unica appare oggi consolidata dalla prospettiva dell’Unione bancaria: contestare la violenza con cui essa esprime il comando capitalistico è necessario, immaginare un ritorno alle monete nazionali significa non capire qual è oggi il terreno su cui si gioca lo scontro di classe.
Non si poteva essere più chiari: oggi l'Europa non è altro che una moneta unica e una banca centrale che la gestisce. E' di fatto
tutto il potere, che ora rafforziamo integrando fortemente le banche nazionali. Al re affianchiamo una camera dei lord. Qui non si realizza nessuno scontro di classe perché le élites non si sognano di interpellare le classi.
Certo, l’Europa oggi è un’“Europa tedesca”, la sua geografia economica e politica si va riorganizzando attorno a precisi rapporti di forza e di dipendenza che si riflettono anche a livello monetario. Ma solo l’incanto neoliberale induce a scambiare l’irreversibilità del processo di integrazione con l’impossibilità di modificarne i contenuti e le direzioni, di far agire dentro lo spazio europeo la forza e la ricchezza di una nuova ipotesi costituente.
Gli autori hanno appena introdotto un principio indimostrato (l'irreversibilità dell'integrazione europea) e già vi fanno ricorso per forzare le loro conclusioni.
Abbiamo appena appurato che: l'UE è di fatto il potere di una banca privata (BCE) e che tale potere si rafforza - rafforzando il suo strumento (l'euro) - con l'unione bancaria. L'uomo della strada concluderebbe col dire che questa è sempre di più l'Europa delle banche e sempre meno l'Europa dei cittadini.
Mezzadra e Negri ne convengono, ma siccome hanno assunto l'assioma dell'irreversibilità, concludono che per ora ci teniamo l'Europa che c'è, poi la cambiamo tutta.
Tralasciando il fatto (non tralasciabile) che l'attuale forma del potere europeo è -
de jure e
de facto - costituente, per cui già ci muoviamo, in affanno, all'inseguimento, resta la constatazione che la proposta appare quantomeno curiosa.
E' come se, nel referendum del 1946, si fosse data l'indicazione di votare per la monarchia, perché tanto, in sede di Costituente, si sarebbe poi stabilito che il re, scelto tra i cittadini eleggibili, sarebbe stato eletto dal parlamento, e avrebbe regnato sette anni.
In termini di lotta di classe, ciò vuol dire che, se nell'attuale fase è il nostro avversario a scegliere le modalità dello scontro, a noi spetterebbe l'avvertenza di scegliere il terreno più favorevole.
Sebbene anche Mezzadra e Negri ricorrano alla locuzione
lotta di classe, l'impianto del loro discorso è solidamente idealista, ancorché non rigoroso, giacché nella loro irrequieta dialettica, talvolta si privilegia l'atto, tal'altra la potenza.
Rompere questo incanto, che in Italia è come moltiplicato dalla vera e propria dittatura costituzionale sotto cui stiamo vivendo, significa oggi riscoprire lo spazio europeo come spazio di lotta, di sperimentazione e di invenzione politica. Come terreno sul quale la nuova composizione sociale dei lavoratori e dei poveri aprirà, eventualmente, una prospettiva di organizzazione politica.
Da notare, in questo passaggio, il riferimento a una
vera e propria dittatura costituzionale, che qui passa per una nostra stravagante variante nazionale e non , come sarebbe doveroso dire, per diretto commissariamento delle istituzioni da parte di quel potere europeo che (per ora) dovremmo tenerci.
Compare anche uno
spazio sociale europeo, antica e fumosa formulazione, con connotati non necessariamente di classe. Infatti si pongono sullo stesso piano lavoratori e generici poveri.
Nella sua lotta sociale, il lavoratore ha come controparte immediata il padrone e la sua lotta mira all'erosione dei profitti, cioè alla restituzione di (sia pur modeste) quote di plusvalore. Viceversa, la lotta del povero è sempre
lotta politica, che interpella le istituzioni per sollecitarle a una più efficace funzione di ridistribuzione, ottimizzando l'impiego della fiscalità. E' la classica prospettiva socialdemocratica ed è con sollievo che apprendiamo che la prospettiva di un'organizzazione politica a ciò finalizzata, sia solo eventuale.
Aggiungiamo anche che la lotta sociale in Europa, prima dell'avvento della UE era, per qualità e quantità, in migliore salute. A quei tempi, infatti, facevano fior di scioperi anche gli operai tedeschi, convinti che il loro avversario fosse il padrone e non i loro sciuponi colleghi di Spagna, Italia e Grecia. Va da sé che tale identificazione dellavversario induceva alla maturazione di sentimenti internazionalisti di massa, che oggi ci sogniamo.
Certo, lottando sul terreno europeo, essa avrà la possibilità di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalistica. È ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico.
Chissà chi è quell'
essa posta a soggetto?
La nuova (de)composizione sociale, che abbiamo visto all'opera nel recente movimento dei "forconi"? Cioè la rissa tra porzioni del corpo sociale subalterno, che si rinfacciano l'un l'altra supposti privilegi, o la lotta tra un nord che difende i suoi residui di benessere contro un sud che vuole affrancarsi dalla fame?
Oppure è l'organizzazione politica (per di più eventuale) che cercherà di districare il nodo di tali contraddizioni? La storia assumerebbe tempi ben lunghi e di opinabile evoluzione.
E in questo caso, ammesso che ci riesca, come può pensare di colpire direttamente la nuova accumulazione capitalista?
Nella situazione che è data, la miglior prospettiva possibile, è evidentemente un risveglio della classe operaia cinese o indiana. Un movimento vincente di forti rivendicazioni salariali in quei quadranti aprirebbe nuovi spazi di contrattazione alla classe operaia europea. Analogamente, un buon contratto alla Renault apre le possibilità di un buon contratto Fiat. Giova, dunque a operai di Fiat e Renault, che i loro padroni siano divisi e in competizione. Nella prospettiva di unità europea che si è delineata, già si uniscono le banche, poi toccherà all'industria e (forse), infine, ai lavoratori. Fiat e Renault saranno integrate molto prima di CGIL e CGT. Che questa sia la strada dei padroni ce lo insegna la storia: Valletta uscì dalla Confindustria molto prima di Marchionne, proprio per costruire una associazione europea dei produttori e un contratto europeo dell'automobile.
Non bisogna confondere il cosmopolitismo imperialista con l'internazionalismo proletario,
marciare divisi per colpire uniti.
Se il discorso, dal salario, si allarga al reddito, diventa ancora più campato in aria.
Nel conflitto che oppone lavoratori e padroni, la posta in gioco è la fetta di salari e stipendi che si taglia nella torta dei profitti. Il padrone, per recuperare profitti cercherà di ingrandire la torta, acquisendo nuove quote di mercato e, di nuovo, i lavoratori reclameranno una fetta più grande.
Viceversa, per il reddito garantito, occorre ridisegnare le fette della torta della fiscalità generale. E' da vedere se, limando qui e là, si possa ottenere la fetta necessaria. Quanto a ingrandire la torta, qui vi voglio.
E' molto difficile, nel quadro imperioso della competitività internazionale, ingrandire la torta fiscale prelevando, come si vorrebbe, dall'accumulazione capitalistica. Ci si orienterebbe, con ogni probabilità a continuare con l'attuale strategia di esproprio delle classi medie , già a livello di massima tolleranza. Ne potrebbe derivare un disastro sociale che, oltre che pericoloso per le istituzioni democratiche, sarebbe incompatibile proprio con il proposito di assicurare a tutti un reddito.
Non che non si possa, intendiamoci, prelevare fiscalmente dai profitti, ma per farlo ci vogliono gli strumenti necessari e un preciso orientamento dell'opinione pubblica.
In Italia, almeno lo strumento ce l'abbiamo: la nostra Costituzione (emendata da elementi spuri) è infatti concepita come uno strumento di
democrazia progressiva.
Ci si chiede quale sarebbe la via più razionale: partendo da uno strumento giuridico già esistente, (re)suscitare il movimento di idee che ne fu alla base, oppure: prima suscitare un opportuno movimento di idee e poi lottare per ottenerne un coerente strumento giuridico?
A noi pare che le forze di destra abbiano da tempo compreso che l’irreversibilità dell’integrazione segna oggi il perimetro di ciò che è politicamente pensabile e praticabile in Europa. Attorno a un’ipotesi di sostanziale approfondimento del neoliberalismo si è ormai organizzato un blocco egemonico che comprende al proprio interno varianti anche significativamente eterogenee (dalle aperture non solo tattiche in direzione di ipotesi socialdemocratiche di Angela Merkel alla violenta stretta repressiva e conservatrice di Mariano Rajoy). Le stesse forze di destra che si presentano come “anti-europee”, quantomeno nelle loro componenti più avvertite, giocano questa opzione sul terreno europeo, puntando ad allargare gli spazi di autonomia nazionale che nella costituzione della UE sono ben presenti e recuperando su un piano meramente demagogico il risentimento e la rabbia diffusi in ampi settori della popolazione dopo anni di crisi. Il riferimento alla nazione si dimostra qui per quel che è: la trasfigurazione di un senso di impotenza in aggressività xenofoba, la difesa di interessi particolari immaginati come architravi di una “comunità di destino”.
Qui, il succo parrebbe: dato che la destra, anche quando finge di essere antieuropeista, antieuropeista non è, dobbiamo adeguarci.
Per contro la sinistra socialista, anche dove non è direttamente parte del blocco egemonico neoliberale, fatica a distinguersene in modo efficace e ad elaborare proposte programmatiche di segno chiaramente innovativo. La candidatura di Alexis Tsipras, leader di Syriza, a presidente della Commissione europea riveste in questo quadro un indubbio significato, e ha determinato in molti Paesi una positiva apertura di dibattito a sinistra, anche se in altri (primo fra tutti l’Italia) sembrano prevalere gli interessi di piccoli gruppi o “partiti”, incapaci di sviluppare un discorso politico pienamente europeo.
Questo è probabilmente il passaggio che giustifica l'intero testo: spezzare una lancia a favore di Alexis Tsipras.
Notiamo con soddisfazione che è questione riservata alla
sinistra socialista, che talvolta, come onestamente si ammette, fa direttamente parte del blocco egemonico neoliberale.
Sono lieto, come comunista, di non essere interpellato, ma mi piacerebbe sapere qual'è l'
indubbio significato che assume la sua candidatura. Non vorrei che, dopo l'irreversibilità, ci fosse un secondo assioma da accettare per fede.
Se così stanno le cose, perché ci sembrano importanti le elezioni europee del prossimo maggio? In primo luogo perché tanto il relativo rafforzamento dei poteri del parlamento quanto l’indicazione da parte dei partiti di un candidato alla presidenza della Commissione fanno necessariamente della campagna elettorale un momento di dibattito europeo, in cui le diverse forze saranno costrette a definire e ad enunciare quantomeno un abbozzo di programma politico europeo. A noi pare dunque che si presenti qui un’occasione di intervento politico per tutti coloro che si battono per rompere tanto l’incanto neoliberale quanto il suo corollario, secondo cui l’unica opposizione possibile alla forma attuale dell’Unione Europea è il “populismo” anti-europeo.
Il risibile rafforzamento dei poteri, per il quale ci sono voluti 35 anni, del parlamento europeo, può ben dirsi relativo. Relativo al fatto che non ha nessun potere nella guida dell'Unione.
E' ben strano che ogni opposizione a questa federazione autoritaria, senza alcun controllo democratico sull'esecutivo, subalterna alla
governance di una banca privata, debba essere sempre etichettata come populista. Non si può essere, magari, popolari?
Non escludiamo in linea di principio che questo intervento possa trovare interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale. Ma quello a cui pensiamo è prima di tutto un intervento di movimento, capace di radicarsi all’interno delle lotte che negli ultimi mesi si sono sviluppate, sia pure in forme diverse, in molti Paesi europei (cominciando a investire con significativa intensità anche la Germania).
Gli interessi elettorali sono esclusi fin dall'incipit, ma questo è un appello per un cartello elettorale in appoggio alla candidatura di Tsipras. E' dunque certo che si cercano interlocutori tra le forze che si muovono sul terreno elettorale, anche se in questo passaggio è meglio sputarci sopra (movimentisticamente, non populisticamente, eh?) per strizzare l'occhio ai movimenti, di spezzoni dei quali si vorrebbe recuperare un pronunciamento elettorale.
Decisivo è oggi riqualificare un discorso di programma, e solo dentro e contro lo spazio europeo questo è possibile.
Ecco lo slogan elettorale:
dentro e contro. Gli ossimori fanno bene alla poesia, ma riducono a caricatura la politica.
Non v’è oggi da indagare sociologicamente, magari all’ombra di qualche forcone, la “composizione tecnica di classe” nell’attesa messianica della “composizione politica” adeguata. Così come oggi non c’è da attendersi che si diano movimenti di classe vincenti che non abbiano interiorizzato la dimensione europea.
Prendiamoli come due comandamenti e non chiediamoci il perché.
Non sarebbe la prima volta, anche nella recente storia delle lotte, che taluni movimenti fossero obbligati dal modificarsi del quadro politico a ripiegare da grandi esperienze locali ad asfittiche chiusure settarie.
Chissà a chi pensano.
Si tratta di ricostruire immediatamente un orizzonte generale di trasformazione, di elaborare collettivamente una nuova grammatica politica e un insieme di elementi di programma che possano aggregare forza e potere dall’interno delle lotte, contrapponendosi alle derive che abbiamo visto in Italia nelle scorse settimane, dove non a caso il simbolo unificante è stato il tricolore. Qui e ora, lo ripetiamo, l’Europa ci appare il solo spazio in cui questo sia possibile.
Coerenti con il loro comandamento, non indagano sociologicamente e se la cavano con una battuta, dimenticando che il tricolore fu anche il simbolo unificante del CLN. E che le lotte contro colonialismo e imperialismo hanno sempre anche implicato una questione nazionale.
Un punto ci sembra particolarmente importante. La violenza della crisi farà sentire ancora a lungo i suoi effetti. All’orizzonte non c’è la “ripresa”, se per ripresa intendiamo un significativo riassorbimento della disoccupazione, la diminuzione della precarietà e un relativo riequilibrio dei redditi. Tuttavia, un ulteriore approfondimento della crisi sembra da escludere. L’accordo sul salario minimo su cui si è fondata la nuova grande coalizione in Germania pare piuttosto indicare un punto di mediazione sul terreno del salario sociale che può funzionare – a geometria e geografia variabili – come criterio di riferimento generale per la definizione di uno scenario di relativa stabilità capitalistica in Europa.
Francamente non si comprende perché, in uno scenario costante di scarsità delle risorse, certe scelte tedesche (in gran parte già presenti e presenti in altri paesi UE) possano diventare il modello a cui uniformarsi. Sul welfare europeo, la Germania si è espressa in maniera inequivocabile in Grecia e a Cipro. Per i tedeschi, ogni paese europeo dovrebbe fare unicamente ciò che può permettersi.
Ma anche ammettendo di poter aspirare a un sistema di reddito sociale (si tenga presente, come punto di riferimento, l'ammontare delle nostre pensioni minime e di quelle d'invalidità), sarebbe conveniente scambiarlo con le normative sociali nazionali? Gli stessi autori ci avvertono del pericolo:
È uno scenario, non è la realtà attuale, ed è uno scenario di relativa stabilità capitalistica. Sotto il profilo della forza lavoro e delle forme della cooperazione sociale, questo scenario assume come dati di partenza l’estensione e l’intensificazione della precarietà, la mobilità all’interno dello spazio europeo e dall’esterno, il declassamento di quote rilevanti di lavoro cognitivo e la formazione di nuove gerarchie all’interno di quest’ultimo, che si sono determinati nella crisi. Più in generale lo scenario di relativa stabilità di cui parliamo registra la piena egemonia di un capitale le cui operazioni fondamentali hanno una natura estrattiva, combinano cioè alla persistenza del tradizionale sfruttamento un intervento di “prelievo” diretto della ricchezza sociale (attraverso dispositivi finanziari ma anche assumendo come terreno privilegiato di valorizzazione “beni comuni” come, fra gli altri, la salute e l’istruzione).Non a caso i movimenti hanno compreso che su questo terreno si danno le lotte capaci di colpire il nuovo regime di accumulazione, come hanno mostrato in Italia il 19 ottobre.
Questo è lo scenario. I padroni sono forti e uniti, il movimento è, in tutt'Europa più debole di dieci anni fa e quote di ceti popolari vengono crescentemente attratti dalle sirene xenofobe e neofasciste.
Val la pena di insistere con questo gioco?
In Grecia un fortissimo movimento di protesta è stato sconfitto da un governo che aveva una sola arma: l'euro.
Cosa avrebbero fatto i padroni greci se avessero dovuto affrontare scioperi di 48 ore con i tasca le dracme?
Che effetti avrebbe avuto la lotta del popolo greco in Italia, Spagna, Portogallo e persino in Francia?
Dentro questo scenario si tratta ovviamente di guardare alla specificità delle lotte che si sviluppano, di analizzarne l’eterogeneità e di misurarne l’efficacia in contesti politici, sociali e territoriali che possono essere anche molto diversi. Ma si tratta anche di porre il problema del modo in cui possono convergere, moltiplicando la loro stessa potenza “locale”, entro la cornice europea. La delineazione di nuovi elementi di programma può prendere intanto la forma della scrittura collettiva di una serie di principi inderogabili, sul terreno del welfare e del lavoro, della fiscalità e della mobilità, delle forme di vita e della precarietà, su tutti i terreni su cui si sono espressi e si esprimono i movimenti in Europa. Non è una carta dei diritti scritta dal basso, e da proporre a qualche assise istituzionale, quella a cui pensiamo: è piuttosto un esercizio collettivo di definizione programmatica che, come comincia a mostrare in queste settimane la stesura della “Carta di Lampedusa” per quel che riguarda la migrazione e l’asilo, può diventare strumento di organizzazione a livello europeo. Senza dimenticare che in questo lavoro possono sorgere impulsi decisivi, fin da subito, per la costruzione di coalizioni di forze locali ed europee, sindacali e mutualistiche, in movimento.
Ecco, infine la proposta concreta, scrivere per l'ennesima volta la carta dei diritti negati. Come se non fosse già marchiata a fuoco sulla pelle e nel cuore di tutti gli sfruttati del mondo.
Di questa letterina densa di principi apoditticamente indimostrati, che trovano il loro unico fondamento nell'ossessività con cui l'apparato propagandistico del nemico di classe ce li ha ripetuti, potevamo anche farne a meno.
E facevamo a meno anche dell'ennesima riproposizione del programma, ormai bolso, della Seconda Internazionale: gran cagnara per modesti e miserabili risultati.