Sul treno, verso la manifestazione del 25 aprile.
Due signore, due file più avanti, ci stanno andando anche loro, parlano della Brigata Ebraica, in relazione alle polemiche anticipate dalla stampa, e dal tenore del loro colloquio, comprendo che sono convinte che sia stata una brigata partigiana formata da ebrei.
Non è così, era un unità militare del corpo di spedizione britannico e venne istituito nel settembre del 1944 dopo una lunga trattativa fra i rappresentanti del movimento sionista, l’Agenzia sionista e il governo britannico, presieduto dal 1940 da Winston Churchill, governo inizialmente non favorevole alla costituzione di una unità militare esclusivamente ebraica. Fu ufficialmente chiamata Jewish Infantry Brigade Group.
La Brigata sionista non comprendeva ebrei italiani, essendosi costituita nella Palestina del mandato britannico. Ne facevano parte ebrei provenienti dalla Palestina storica che sarebbe poi diventata l’attuale Israele e di ebrei provenienti da altri paesi del Commonwealth britannico, Canada, Australia, Sud Africa e di ebrei di origine polacca e russa.
Mi intrometto e spiego. Faccio notare, anche, che è l'unica unità, delle tante dell'armata alleata, che partecipa alla sfilata.
Restano interdette, ma hanno una risposta di riserva: Comunque, se hanno sempre partecipato alla manifestazione, hanno diritto di venirci ancora.
Le disilludo, la Brigata Ebraica partecipa alla manifestazione solo dal 2004, data in cui si suppone che la maggior parte dei suoi componenti fosse ormai estinta. Le invito a riflettere sulle probabili ragioni politiche di questa scelta estemporanea.
Ma invano, il circuito mentale Auschwitz/Ebrei esclude quello Palestina/Israele.
Ma sulle ragioni politiche lascio la parola all'Associazione amici d'Israele:
Il 25 aprile 2004 è una giornata che noi soci ADI stenteremo a dimenticare. Da anni eravamo stanchi di partecipare (come singoli individui) ai festeggiamenti della Liberazione circondati da bandiere palestinesi. Due anni fa poi, il nostro Segretario Generale Davide Romano lanciò l'idea, subito accolta, di partecipare come ADI alla manifestazione del 25 aprile sotto le insegne della Brigata Ebraica.
Solo l'anno scorso però riuscimmo ad avere i fondi per comprare uno striscione degno di tale nome; ed i primi risultati di visibilità, oltre che di dibattito storico, si iniziarono ad intravedere.
Per noi Amici d'Israele era importante qualificarci in maniera diversa: in primo luogo per ricordare gli eroi della Brigata Ebraica ma anche, ed è inutile nasconderlo, per non farci annoverare tra la massa dei manifestanti antiamericani o antisraeliani (o filoarafat, e quindi contro una democrazia palestinese)... Il successo della manifestazione, per il quale dobbiamo ringraziare tutti i partecipanti, è stato però più rilevante dal punto di vista culturale che dal lato delle presenze...Dal lato culturale infatti, siamo riusciti come ADI - in soli 2 anni - ad imporre all'attenzione dei mass-media e del dibattito culturale la questione della Brigata Ebraica. Non solo: se vi soffermate sulla scritta riportata sullo striscione potrete notare la scritta: "Brigata Ebraica. Anche loro, 5.000 sionisti, liberarono l'Italia".
L'utilizzo del termine "sionisti" è stato scelto con cura. Con tale messaggio infatti, abbiamo già voluto introdurre la prossima battaglia culturale: quella dello "sdoganamento" del sionismo.
Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (Antonio Gramsci)
domenica 26 aprile 2015
lunedì 13 aprile 2015
peggio di un crimine, è un errore
peggio di un crimine, è un errore
Citiamo da Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, per commentare questo manifesto:
In questo manifesto vediamo concentrati tutti gli errori che derivano da una non corretta concezione di classe (Toni Negri et altri).
Parafrasando la nota poesia del pastore Martin Niemöller (erroneamente attribuita a Brecht), si fa un elenco di supposte soggettività resistenti.
Si suppone, quindi, che la somma di differenti categorie in oggettiva contraddizione con l'esistente possa diventare l'agente rivoluzionario che sopprime lo stato di cose presenti.
Le cose, e lo si sa bene, nella realtà non vanno così.
Infatti, quando si va a prendere i migranti, i Rom non ci sono e se si va a prendere i Rom non ci sono i migranti, quando poi si va a prendere queer, gay e lesbiche, non ci sono né i Rom, né i migranti e così via.
Insomma, quel noi di cui si parla non rappresenta la somma di tutti gli altri menzionati (Rom, migranti, gay, autoassegnatari, antifascisti) perché queste categorie non sono solo in contraddizione con gli attuali assetti di potere, ma anche tra di loro.
Quel noi, dunque, è lontano dall'identificarsi con tutti quelli che vengono menzionati e ancor più lontano dal potersi identificare, come si pretende nel finale, nell'intera umanità.
Già, perché alla fine si riesce a dare un nome al soggetto rivoluzionario che addirittura si identificherebbe con l'umanità.
Eccoci ripiombati in pieno delirio utopistico, al socialismo di Saint-Simon, Owen e Fourier e all'anarchismo. Siamo alla metà dell'800, o forse più indietro, al cristianesimo delle origini.
Se, infatti, il destinatario del messaggio rivoluzionario è l'umanità in genere, quello che si spera è che le idee buone si impongano su quelle cattive.
Ma la storia si incarica di avvertirci che le cose non funzionano così e che anche se una buona idea, come il cristianesimo, riesce ad imporsi e a divenire patrimonio comune di gran parte dell'umanità, poi la pace e la giustizia non arrivano lo stesso.
Insomma, la lotta non è, come nelle favole e nei film americani, tra buoni e cattivi, ma tra interessi inconciliabili.
Marx ci ha erudito da ormai molto tempo sul fatto che tali interessi contrapposti determinano la lotta incessante delle classi.
La lotta rivoluzionaria, insomma, non è battaglia di idee, o non è solo quello, è soprattutto lotta di classe.
L'elemento centrale e determinante di tale lotta, per l'appunto la classe, è il grande assente di questo manifesto che denuncia così i suoi tratti di volontarismo piccolo-borghese dietro al quale si nasconde spesso, talvolta inconscia, una presunzione di superiorità antropologica che non può avere nessun aspetto progressista.
Citiamo da Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, per commentare questo manifesto:
In questo manifesto vediamo concentrati tutti gli errori che derivano da una non corretta concezione di classe (Toni Negri et altri).
Parafrasando la nota poesia del pastore Martin Niemöller (erroneamente attribuita a Brecht), si fa un elenco di supposte soggettività resistenti.
Si suppone, quindi, che la somma di differenti categorie in oggettiva contraddizione con l'esistente possa diventare l'agente rivoluzionario che sopprime lo stato di cose presenti.
Le cose, e lo si sa bene, nella realtà non vanno così.
Infatti, quando si va a prendere i migranti, i Rom non ci sono e se si va a prendere i Rom non ci sono i migranti, quando poi si va a prendere queer, gay e lesbiche, non ci sono né i Rom, né i migranti e così via.
Insomma, quel noi di cui si parla non rappresenta la somma di tutti gli altri menzionati (Rom, migranti, gay, autoassegnatari, antifascisti) perché queste categorie non sono solo in contraddizione con gli attuali assetti di potere, ma anche tra di loro.
Quel noi, dunque, è lontano dall'identificarsi con tutti quelli che vengono menzionati e ancor più lontano dal potersi identificare, come si pretende nel finale, nell'intera umanità.
Già, perché alla fine si riesce a dare un nome al soggetto rivoluzionario che addirittura si identificherebbe con l'umanità.
Eccoci ripiombati in pieno delirio utopistico, al socialismo di Saint-Simon, Owen e Fourier e all'anarchismo. Siamo alla metà dell'800, o forse più indietro, al cristianesimo delle origini.
Se, infatti, il destinatario del messaggio rivoluzionario è l'umanità in genere, quello che si spera è che le idee buone si impongano su quelle cattive.
Ma la storia si incarica di avvertirci che le cose non funzionano così e che anche se una buona idea, come il cristianesimo, riesce ad imporsi e a divenire patrimonio comune di gran parte dell'umanità, poi la pace e la giustizia non arrivano lo stesso.
Insomma, la lotta non è, come nelle favole e nei film americani, tra buoni e cattivi, ma tra interessi inconciliabili.
Marx ci ha erudito da ormai molto tempo sul fatto che tali interessi contrapposti determinano la lotta incessante delle classi.
La lotta rivoluzionaria, insomma, non è battaglia di idee, o non è solo quello, è soprattutto lotta di classe.
L'elemento centrale e determinante di tale lotta, per l'appunto la classe, è il grande assente di questo manifesto che denuncia così i suoi tratti di volontarismo piccolo-borghese dietro al quale si nasconde spesso, talvolta inconscia, una presunzione di superiorità antropologica che non può avere nessun aspetto progressista.
domenica 1 marzo 2015
L'inopportunista. Triste e ridicola fine di un leader di paese
Claudio Ardizio, esodato e leader della sinistra novarese che guarda a Tsipras, ha preso la parola alla manifestazione di Roma di Salvini e dei fascisti.
Nessuno, in quel frastuono, ha sentito cosa ha detto e se qualcuno l'ha sentito, del suo intervento non ricorda neanche una parola . Di quell'istante che, secondo lui, doveva palesare la sua statura di dirigente nazionale, resta solo una fotografia che lo ritrae in cattiva compagnia.
Talvolta l'opportunismo determina scelte davvero inopportune, tanto che sembrerebbe più appropriato parlare di inopportunismo.
Sconforto, ira e depressione tra i suoi sostenitori novaresi, da poco frustrati dalla defezione di Fonzo, il vicesindaco SEL passato in area PD per un piatto di lenticchie, e da tempo orfani del più illustre prodotto della locale Camera del Lavoro, quel Fausto Bertinotti inghiottito dai velluti dei salotti romani. Adesso sperano in Landini.
E qui sta il punto: quello di una sinistra che sente il bisogno di incarnarsi in un leader, cui fa riscontro la proliferazione di individui che di cotale sinistra credono di essere i leader.
La biografia di Ardizio è emblematica di questo processo. Ardizio entra nel PCI negli anni del tardo berlinguerismo, quando bastava voler far pagare le tasse a tutti e non calpestare le aiole per sentirsi comunista.
E' con questo bagaglio ideologico da cittadino svizzero che non segue la svolta della Bolognina e approda a Rifondazione.
Qui, dove c'è gente che non paga il biglietto dell'autobus, si sente a disagio e non si sente tenuto nella giusta considerazione.
Approda così a un caravanserraglio di avventurieri, i Moderati per Bresso, che sgomitano tra loro per un posto retribuito.
Sembrerebbe approdato alla meta finale, giacché moderato lo è sempre stato.
Ma disgraziatamente il ministro Fornero, con improvvido provvedimento, lo colloca, dall'oggi al domani, tra gli esodati.
E' una trasformazione che ha portata ontologica, da ingegnere che ha soggettivamente scelto di stare con gli sfruttati, entra, o crede di entrare, nel campo di chi è oggettivamente sfruttato.
La metamorfosi sociale dà ossigeno e credibilità alle sue mai tramontate ambizioni di avere un ruolo politico. Adesso ha una mission da portare avanti e ci prova, prima con Alba, poi con Ingroia, poi con Tsipras, infine con Salvini.
Sbaglierebbe chi pensa che le ambizioni di Ardizio abbiano un orizzonte per così dire, monetizzabile.
No, lui è sicuro di avere delle buone idee ed è convinto di essere indispensabile per il progresso dell'umanità.
Nel genere umano quasi tutti sono utili, pochissimi sono superflui e nessuno è indispensabile. Resta la questione delle buone idee, il peccato originale della faccenda.
Le buone idee noi le troviamo in quello che leggiamo, vediamo, ascoltiamo. Le desumiamo, cioè da un sistema di informazione che è quasi interamente nelle mani del padrone.
Il fatto che siano diffuse dal padrone non implica che non ci siano in giro idee davvero buone, tutto sta nel trovarle e distinguerle da quelle che buone non sono.
Ne consegue che noi non abbiamo bisogno di una collezione di buone idee, ma di un metodo per distinguerle.
Per i comunisti c'è un ulteriore sforzo da fare, distinguere tra le idee compatibili col proprio esser comunista e quelle che con esso sono coerenti, cioè, in altre parole, tra quello che si può fare e quello che si deve fare.
Compito del partito, intellettuale collettivo, garantire la corretta applicazione del metodo, stabilire la giusta gerarchia delle idee, ridimensionare le ipertrofie dell'io dei militanti.
Al sistema tolemaico dell'intellettuale piccolo borghese, che si sente il centro dell'universo, si deve sostituire il sistema copernicano, in cui tutto ruota attorno al principio della lotta di classe.
Dove non c'è il partito, non c'è né sistema copernicano, né tolemaico, ma un arcipelago di idee che reclamano tutte la propria centralità e autonomia. Qui, a governare i mille capitani di ventura che armano navi corsare, non può che essere il carisma di un grande capo.
Ardizio, culturalmente, è tutt'altro che uno sprovveduto, fa collezione di lauree. Tutte di tipo tecnico-scientifico. Forse, se ne avesse presa anche una di tipo umanistico, avrebbe potuto realizzare che se un intellettuale borghese decide di rinnegare la propria classe, deve rinnegarla per davvero.
E seguire la regola numero uno: meglio aver torto col partito, che avere ragione contro.
Poi, naturalmente, ci vuole il partito.
Nessuno, in quel frastuono, ha sentito cosa ha detto e se qualcuno l'ha sentito, del suo intervento non ricorda neanche una parola . Di quell'istante che, secondo lui, doveva palesare la sua statura di dirigente nazionale, resta solo una fotografia che lo ritrae in cattiva compagnia.
Talvolta l'opportunismo determina scelte davvero inopportune, tanto che sembrerebbe più appropriato parlare di inopportunismo.
Sconforto, ira e depressione tra i suoi sostenitori novaresi, da poco frustrati dalla defezione di Fonzo, il vicesindaco SEL passato in area PD per un piatto di lenticchie, e da tempo orfani del più illustre prodotto della locale Camera del Lavoro, quel Fausto Bertinotti inghiottito dai velluti dei salotti romani. Adesso sperano in Landini.
E qui sta il punto: quello di una sinistra che sente il bisogno di incarnarsi in un leader, cui fa riscontro la proliferazione di individui che di cotale sinistra credono di essere i leader.
La biografia di Ardizio è emblematica di questo processo. Ardizio entra nel PCI negli anni del tardo berlinguerismo, quando bastava voler far pagare le tasse a tutti e non calpestare le aiole per sentirsi comunista.
E' con questo bagaglio ideologico da cittadino svizzero che non segue la svolta della Bolognina e approda a Rifondazione.
Qui, dove c'è gente che non paga il biglietto dell'autobus, si sente a disagio e non si sente tenuto nella giusta considerazione.
Approda così a un caravanserraglio di avventurieri, i Moderati per Bresso, che sgomitano tra loro per un posto retribuito.
Sembrerebbe approdato alla meta finale, giacché moderato lo è sempre stato.
Ma disgraziatamente il ministro Fornero, con improvvido provvedimento, lo colloca, dall'oggi al domani, tra gli esodati.
E' una trasformazione che ha portata ontologica, da ingegnere che ha soggettivamente scelto di stare con gli sfruttati, entra, o crede di entrare, nel campo di chi è oggettivamente sfruttato.
La metamorfosi sociale dà ossigeno e credibilità alle sue mai tramontate ambizioni di avere un ruolo politico. Adesso ha una mission da portare avanti e ci prova, prima con Alba, poi con Ingroia, poi con Tsipras, infine con Salvini.
Sbaglierebbe chi pensa che le ambizioni di Ardizio abbiano un orizzonte per così dire, monetizzabile.
No, lui è sicuro di avere delle buone idee ed è convinto di essere indispensabile per il progresso dell'umanità.
Nel genere umano quasi tutti sono utili, pochissimi sono superflui e nessuno è indispensabile. Resta la questione delle buone idee, il peccato originale della faccenda.
Le buone idee noi le troviamo in quello che leggiamo, vediamo, ascoltiamo. Le desumiamo, cioè da un sistema di informazione che è quasi interamente nelle mani del padrone.
Il fatto che siano diffuse dal padrone non implica che non ci siano in giro idee davvero buone, tutto sta nel trovarle e distinguerle da quelle che buone non sono.
Ne consegue che noi non abbiamo bisogno di una collezione di buone idee, ma di un metodo per distinguerle.
Per i comunisti c'è un ulteriore sforzo da fare, distinguere tra le idee compatibili col proprio esser comunista e quelle che con esso sono coerenti, cioè, in altre parole, tra quello che si può fare e quello che si deve fare.
Compito del partito, intellettuale collettivo, garantire la corretta applicazione del metodo, stabilire la giusta gerarchia delle idee, ridimensionare le ipertrofie dell'io dei militanti.
Al sistema tolemaico dell'intellettuale piccolo borghese, che si sente il centro dell'universo, si deve sostituire il sistema copernicano, in cui tutto ruota attorno al principio della lotta di classe.
Dove non c'è il partito, non c'è né sistema copernicano, né tolemaico, ma un arcipelago di idee che reclamano tutte la propria centralità e autonomia. Qui, a governare i mille capitani di ventura che armano navi corsare, non può che essere il carisma di un grande capo.
Ardizio, culturalmente, è tutt'altro che uno sprovveduto, fa collezione di lauree. Tutte di tipo tecnico-scientifico. Forse, se ne avesse presa anche una di tipo umanistico, avrebbe potuto realizzare che se un intellettuale borghese decide di rinnegare la propria classe, deve rinnegarla per davvero.
E seguire la regola numero uno: meglio aver torto col partito, che avere ragione contro.
Poi, naturalmente, ci vuole il partito.
venerdì 23 gennaio 2015
Come si fabbrica un terrorista
Alba del 17 settembre del 2000, un automobile della polizia allertata da un vicino, intercetta un furgone che risale la rampa di un garage. Gli agenti intimano l'alt, ma il mezzo prosegue la sua corsa e, incurante di un primo colpo esploso, si dirige contro l'auto della polizia che tenta di sbarrargli la strada.
La polizia spara ancora: tre colpi, poi altri due. Questa volta il furgone si ferma, Ali Rezgui, 19 anni, alla guida del veicolo, è morto sul colpo, sventrato dai proiettili.
Il complice che gli era seduto accanto riesce a dileguarsi, mentre un terzo è intrappolato all'interno del mezzo, tra le moto rubate. È il diciottenne Amedy Coulibaly, che in un solo attimo ha perduto il suo miglior amico e la libertà.
La notizia non passa sotto silenzio a Grigny, la cittadina dove abitavano i ragazzi: municipio di 27.000 abitanti, comunista da sempre, alle porte di Parigi.
Non si può morire per il furto di un paio di motociclette, roba da 4 mesi di galera, e la polizia avrebbe ben potuto mirare alle ruote del veicolo e non alla pancia di un ragazzo.
L'ira di amici e coetanei esplode e per più notti la polizia deve fronteggiare un riot come si deve.
Ma Amedy Coulibaly non partecipa al collettivo rito liberatorio, è al suo primo arresto. Ce ne saranno altri.
C'è, naturalmente un'inchiesta, che viene regolarmente archiviata un paio di settimane dopo. Coulibaly non è convocato come testimone, bastano i poliziotti a testimoniare sul loro stesso operato.
Il complice che gli era seduto accanto riesce a dileguarsi, mentre un terzo è intrappolato all'interno del mezzo, tra le moto rubate. È il diciottenne Amedy Coulibaly, che in un solo attimo ha perduto il suo miglior amico e la libertà.
La notizia non passa sotto silenzio a Grigny, la cittadina dove abitavano i ragazzi: municipio di 27.000 abitanti, comunista da sempre, alle porte di Parigi.
Non si può morire per il furto di un paio di motociclette, roba da 4 mesi di galera, e la polizia avrebbe ben potuto mirare alle ruote del veicolo e non alla pancia di un ragazzo.
L'ira di amici e coetanei esplode e per più notti la polizia deve fronteggiare un riot come si deve.
Ma Amedy Coulibaly non partecipa al collettivo rito liberatorio, è al suo primo arresto. Ce ne saranno altri.
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Settembre 2000, scontri a Grigny |
Molti anni dopo, quando Hayat Boumedienne gli chiederà di farle conoscere i suoi amici, le risponderà che ne ha uno solo, Ali Rezgui.
A vent'anni, malgrado una carriera scolastica accettabile, Coulibaly è uno spostato e nell'età in cui molti dei suoi coetanei di quartiere tentano di mettere la testa a posto, lui alterna la scuola alle rapine.
Dopo una banca di Orleans, rapina due bar di fila a Parigi, ma la doppietta è eccessivamente ardita e Amedy si ritrova a passare sei anni a Fleury-Mèrogis.
Qui, insieme ad altri quattro detenuti, introdotte clandestinamente due microcineprese, filma per mesi, all'insaputa degli altri carcerati e delle guardie, ciò che avviene nel più grande penitenziario d'Europa. Un crudo documento di denuncia di violenze, carenze igieniche e alimentari e del dominio della legge del più forte.
In quest'ambito concede un'intervista, rigorosamente anonima, a Le Monde.
È lucidamente critico sul sistema carcerario (La prison, c'est la putain de meilleure école de la criminalité) ma lui non è un inerme, ha interiorizzato la loi du fort e sa farsi rispettare.
All'inizio, quando sono arrivato, mi sono detto, mollo tutto. Ma il tempo passa e adesso dico che me ne fotto di tutto, sono loro che mi hanno fatto sclerare. Come pretendete di insegnare la giustizia con l'ingiustizia?
Così passa il tempo mantenendosi in forma fisica e giocando con la play station e tra le sbarre impara a fare il boss, facendosi beffe dei secondini, che non riescono mai a prenderlo in castagna con un telefonino abusivo o una dose di droga.
Quelli, allora, gli sequestrano la play station, e non gliela ridaranno più, aggiungendo rabbia alla rabbia (Ils avaient pas le droit. Je l'avais payée 320 euros...).
Chissà se Coulibaly abbia mai accarezzato il progetto di riciclarsi come giornalista. Certo è che quei filmati li cede alla fin fine, e per un buon prezzo a France 2.
Bisogna avere delle riserve, quanto meno per pagare gli avvocati, spiega.
In quel tempo, siamo nel 2005, l'Islam non ha un gran posto nelle sue fantasie, dominate dall'ossessione dei soldi. Le fric, le fric, le fric. Se avessi voluto darne una definizione, avrei utilizzato queste parole - dice uno dei suoi amici - dell'Islam, invece, non ne parlava mai.
Ma la grana, le fric, segna il confine tra chi ha il potere e chi non ce l'ha. La prospettiva di passare la vita in fabbrica, come suo padre, non lo esalta.
Presto anche questo sembra acqua passata: ho fatto una virata di 180° - spiega alla polizia che lo sospetta di aver partecipato al tentativo di evasione di Ali Belkacem, autore degli attentati alla RER del '95 - non voglio prendermi una pallottola in testa, come capita a chi non sa dire basta.
E in fabbrica, dopo tutto, ci va, fa il magazziniere alla Coca Cola, 2000/2200 euro al mese, e si è anche sposato, sia pure solo religiosamente, con Hayat Boumedienne, carina, sei anni più giovane.
Il resto è cronaca, sia pure confusa: una conversione all'integralismo e l'avvicinamento alle frange estremiste, tutto sotto lo sguardo vigile, ma assolutamente impotente, delle autorità.
Ma evidentemente, in questa storia manca un passaggio, quello che spiega la trasformazione di un giovane deciso, senza farne alcun mistero, alla carriera criminale (i soldi per pagare gli avvocati...) nel kamikaze islamista che occulta i suoi propositi nella finzione (ho fatto una virata di 180°...).
È un passaggio non da poco perché ipotizza la trasformazione di una personalità istrionica in una personalità paranoide. (salvo tornare, nel gran finale. alla condizione di partenza).
Naturalmente non sappiamo proprio tutto della vita di Amedy e quindi è difficile tentare una spiegazione, ma possiamo provarci con il poco che abbiamo.
Amedy cresce in una banlieue operaia. Le sue prospettive sociali sono, al meglio, fare la vita di suo padre e entrare in fabbrica.
Ma non è suo padre, né soggettivamente, né oggettivamente. Non è, come suo padre, un emigrato dal Mali, ma un ragazzo nato e cresciuto in Francia e a differenza di suo padre, non vivrebbe la condizione operaia nella prospettiva di riscatto sociale sottesa dalla società classista del 900, ma in quella marginalizzante della società individualista del XXI secolo.
La società dei liberi e uguali ha una logica disgiuntiva: o dentro o fuori, o successo o fallimento, o sommerso o salvato. Il ruolo coincide con lo status, le fric.
E alla grana punta, quando ancora va a scuola e modesti grisbì bastano ad attenuare le differenze coi figli di papà.
È in quell'età a cavallo dell'infanzia, in cui ci si sente onnipotenti ed immortali.
Entra crudelmente nell'età adulta quel 17 settembre e scopre che la realtà, a differenza dei videogiochi, non concede vite di riserva.
Le sbarre di Fleury-Mèrogis inghiottiranno anche l'onnipotenza.
Ma qui, forse inconsapevolmente, si inventa un mestiere e produce un documentario che in America avrebbe ottenuto il Pulitzer.
Logico che a questo punto abbia ambito far qualcos'altro, piuttosto che il ladruncolo, avendone dimostrato le capacità. Forse avrà sperato in un'offerta, anzi, l'avrà data per certa.
Ma le corporazioni sono caste chiuse, per il suo lavoro gli offrono quattro soldi, che a lui sembrano tanti.
Aveva cercato soldi, gli hanno dato la galera, voleva un ruolo gli hanno dato soldi.
Accetta, ma con rabbia, reagendo come i bambini bocciati a scuola che, per difendere il proprio io, fingono di infischiarsene dell'istituzione che li rifiuta.
Ma è intelligente e la galera è stata per lui un università, ormai sa benissimo che non è con le rapine che può cambiare la propria vita. Sa che il rapinatore è il proletario del crimine e che anche in quel mondo infero comandano gli stessi padroni dell'altro.
Le fauci della marginalità, del tirare a campare, a cui aveva cercato di sottrarsi, sacrificando il miglior amico e anni di giovinezza, tornano a spalancarsi per inghiottirlo.
Gli è rimasta solo l'identità: nero e islamico. E a quella si appiglia.
Del resto anche questo gli hanno insegnato, che le uniche identità collettive in cui puoi sentirti meno debole, meno solo e meno inutile sono quelle delle appartenenze di genere e specie.
Il resto è facile da indovinarsi, l'identificazione (ma sarà una novità?) con la prospettiva di un riscatto che può essere solo ultramondano, il rifiuto totale dei valori di una società che lo ha escluso, la certezza di non aver debiti con la Francia.
Dall'esordio del settembre 2000, al gran finale del gennaio 2015, la personalità di Coulibaly non subisce trasformazioni. Non è né istrionica, né paranoide, ma quella di un ragazzo sensibile, orgoglioso e ferito.
A vent'anni, malgrado una carriera scolastica accettabile, Coulibaly è uno spostato e nell'età in cui molti dei suoi coetanei di quartiere tentano di mettere la testa a posto, lui alterna la scuola alle rapine.
Dopo una banca di Orleans, rapina due bar di fila a Parigi, ma la doppietta è eccessivamente ardita e Amedy si ritrova a passare sei anni a Fleury-Mèrogis.
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Amedy Coulibaly nel carcere di Fleury-Mèrogis |
In quest'ambito concede un'intervista, rigorosamente anonima, a Le Monde.
È lucidamente critico sul sistema carcerario (La prison, c'est la putain de meilleure école de la criminalité) ma lui non è un inerme, ha interiorizzato la loi du fort e sa farsi rispettare.
All'inizio, quando sono arrivato, mi sono detto, mollo tutto. Ma il tempo passa e adesso dico che me ne fotto di tutto, sono loro che mi hanno fatto sclerare. Come pretendete di insegnare la giustizia con l'ingiustizia?
Così passa il tempo mantenendosi in forma fisica e giocando con la play station e tra le sbarre impara a fare il boss, facendosi beffe dei secondini, che non riescono mai a prenderlo in castagna con un telefonino abusivo o una dose di droga.
Quelli, allora, gli sequestrano la play station, e non gliela ridaranno più, aggiungendo rabbia alla rabbia (Ils avaient pas le droit. Je l'avais payée 320 euros...).
Chissà se Coulibaly abbia mai accarezzato il progetto di riciclarsi come giornalista. Certo è che quei filmati li cede alla fin fine, e per un buon prezzo a France 2.
Bisogna avere delle riserve, quanto meno per pagare gli avvocati, spiega.
In quel tempo, siamo nel 2005, l'Islam non ha un gran posto nelle sue fantasie, dominate dall'ossessione dei soldi. Le fric, le fric, le fric. Se avessi voluto darne una definizione, avrei utilizzato queste parole - dice uno dei suoi amici - dell'Islam, invece, non ne parlava mai.
Ma la grana, le fric, segna il confine tra chi ha il potere e chi non ce l'ha. La prospettiva di passare la vita in fabbrica, come suo padre, non lo esalta.
Presto anche questo sembra acqua passata: ho fatto una virata di 180° - spiega alla polizia che lo sospetta di aver partecipato al tentativo di evasione di Ali Belkacem, autore degli attentati alla RER del '95 - non voglio prendermi una pallottola in testa, come capita a chi non sa dire basta.
E in fabbrica, dopo tutto, ci va, fa il magazziniere alla Coca Cola, 2000/2200 euro al mese, e si è anche sposato, sia pure solo religiosamente, con Hayat Boumedienne, carina, sei anni più giovane.
Il resto è cronaca, sia pure confusa: una conversione all'integralismo e l'avvicinamento alle frange estremiste, tutto sotto lo sguardo vigile, ma assolutamente impotente, delle autorità.
Ma evidentemente, in questa storia manca un passaggio, quello che spiega la trasformazione di un giovane deciso, senza farne alcun mistero, alla carriera criminale (i soldi per pagare gli avvocati...) nel kamikaze islamista che occulta i suoi propositi nella finzione (ho fatto una virata di 180°...).
È un passaggio non da poco perché ipotizza la trasformazione di una personalità istrionica in una personalità paranoide. (salvo tornare, nel gran finale. alla condizione di partenza).
Naturalmente non sappiamo proprio tutto della vita di Amedy e quindi è difficile tentare una spiegazione, ma possiamo provarci con il poco che abbiamo.
Amedy cresce in una banlieue operaia. Le sue prospettive sociali sono, al meglio, fare la vita di suo padre e entrare in fabbrica.
Ma non è suo padre, né soggettivamente, né oggettivamente. Non è, come suo padre, un emigrato dal Mali, ma un ragazzo nato e cresciuto in Francia e a differenza di suo padre, non vivrebbe la condizione operaia nella prospettiva di riscatto sociale sottesa dalla società classista del 900, ma in quella marginalizzante della società individualista del XXI secolo.
La società dei liberi e uguali ha una logica disgiuntiva: o dentro o fuori, o successo o fallimento, o sommerso o salvato. Il ruolo coincide con lo status, le fric.
E alla grana punta, quando ancora va a scuola e modesti grisbì bastano ad attenuare le differenze coi figli di papà.
È in quell'età a cavallo dell'infanzia, in cui ci si sente onnipotenti ed immortali.
Entra crudelmente nell'età adulta quel 17 settembre e scopre che la realtà, a differenza dei videogiochi, non concede vite di riserva.
Le sbarre di Fleury-Mèrogis inghiottiranno anche l'onnipotenza.
Ma qui, forse inconsapevolmente, si inventa un mestiere e produce un documentario che in America avrebbe ottenuto il Pulitzer.
Logico che a questo punto abbia ambito far qualcos'altro, piuttosto che il ladruncolo, avendone dimostrato le capacità. Forse avrà sperato in un'offerta, anzi, l'avrà data per certa.
Ma le corporazioni sono caste chiuse, per il suo lavoro gli offrono quattro soldi, che a lui sembrano tanti.
Aveva cercato soldi, gli hanno dato la galera, voleva un ruolo gli hanno dato soldi.
Accetta, ma con rabbia, reagendo come i bambini bocciati a scuola che, per difendere il proprio io, fingono di infischiarsene dell'istituzione che li rifiuta.
Ma è intelligente e la galera è stata per lui un università, ormai sa benissimo che non è con le rapine che può cambiare la propria vita. Sa che il rapinatore è il proletario del crimine e che anche in quel mondo infero comandano gli stessi padroni dell'altro.
Le fauci della marginalità, del tirare a campare, a cui aveva cercato di sottrarsi, sacrificando il miglior amico e anni di giovinezza, tornano a spalancarsi per inghiottirlo.
Gli è rimasta solo l'identità: nero e islamico. E a quella si appiglia.
Del resto anche questo gli hanno insegnato, che le uniche identità collettive in cui puoi sentirti meno debole, meno solo e meno inutile sono quelle delle appartenenze di genere e specie.
Il resto è facile da indovinarsi, l'identificazione (ma sarà una novità?) con la prospettiva di un riscatto che può essere solo ultramondano, il rifiuto totale dei valori di una società che lo ha escluso, la certezza di non aver debiti con la Francia.
Dall'esordio del settembre 2000, al gran finale del gennaio 2015, la personalità di Coulibaly non subisce trasformazioni. Non è né istrionica, né paranoide, ma quella di un ragazzo sensibile, orgoglioso e ferito.
giovedì 8 gennaio 2015
Un altro libro revisionista e antistorico
Nel mese di novembre ho partecipato a Robecchetto con Induno alla presentazione di un libro dal titolo: “SU QUELLA CHE FU LA RESISTENZA (1943-1948) partigiani e patrioti” i cui autori erano Giuseppe Leoni e Alessandro Maiocchi.
Già dal periodo in cui viene collocata la Resistenza fino al 1948! mi sono venuti dei dubbi, senza dimenticare i due autori: il Maiocchi che si attribuisce una miriade di azioni partigiane senza naturalmente fornire alcuna documentazione, e poi il Leoni noto per aver scritto la tesi di laurea sulla figura del fascista Ezio Maria Gray e un libro “Fascisti, partigiani, repubblichini nel castanese – la seconda linea gotica”.
Un libro, quello presentato, che nel descrivere molti fatti già ben conosciuti e documentati in molti libri scritti da studiosi della Resistenza si sottolinea che la “Resistenza fu Guerra Civile”, che “dopo la Liberazione ci fu una mattanza, non solo di fascisti ma anche di partigiani non comunisti”. Si parla di partigiani e repubblichini “animati da un odio viscerale tale che, cambiato di pelle, è ancora presente nella lotta politica dei nostri giorni”.
Si accusa i partiti della sinistra storica di aver “dato un’interpretazione monumentale della Resistenza impedendo un’analisi storica e i distinguo tra i due antifascismi in campo: liberaldemocratico e comunista”.
Nel dopoguerra si ritorna a parlare delle “stragi rosse” e non manca l’argomento foibe senza minimamente parlare dei crimini fascisti in Jugoslavia durante tutto il periodo della loro dominazione.
Nella bibliografia, si accreditano le falsità di un Pisanò e naturalmente del Pansa.
Il libro in questione si inserisce nel filone del revisionismo storico e che non ha nulla da insegnarci.
Senza dilungarmi oltre chi vuole conoscere la storia, quella vera e non romanzata o usata in senso anticomunista non ha bisogno di questi libri (stampati e sponsorizzati dalla Fondazione dell’industriale Canziani e distribuiti gratuitamente a tutti), basta andare presso gli Istituti Storici o alla Casa della Resistenza.
Personalmente sono intervenuto durante la serata di presentazione contestando l’impostazione, il contenuto antistorico e le finalità dell’operazione, intervento che ha riscosso il sostegno dei compagni delle sezioni ANPI presenti. Va pure ricordato che i due autori, volutamente, non hanno invitato l’ANPI!
Con questa breve nota ho sentito il dovere di segnalare ai compagni antifascisti contenuti e finalità dell’operazione e naturalmente l’inutilità dell’acquisto (c’è chi lo sta proponendo a 25 euro!).
Piero Beldì
Associazione Culturale Stella Alpina
Già dal periodo in cui viene collocata la Resistenza fino al 1948! mi sono venuti dei dubbi, senza dimenticare i due autori: il Maiocchi che si attribuisce una miriade di azioni partigiane senza naturalmente fornire alcuna documentazione, e poi il Leoni noto per aver scritto la tesi di laurea sulla figura del fascista Ezio Maria Gray e un libro “Fascisti, partigiani, repubblichini nel castanese – la seconda linea gotica”.
Un libro, quello presentato, che nel descrivere molti fatti già ben conosciuti e documentati in molti libri scritti da studiosi della Resistenza si sottolinea che la “Resistenza fu Guerra Civile”, che “dopo la Liberazione ci fu una mattanza, non solo di fascisti ma anche di partigiani non comunisti”. Si parla di partigiani e repubblichini “animati da un odio viscerale tale che, cambiato di pelle, è ancora presente nella lotta politica dei nostri giorni”.
Si accusa i partiti della sinistra storica di aver “dato un’interpretazione monumentale della Resistenza impedendo un’analisi storica e i distinguo tra i due antifascismi in campo: liberaldemocratico e comunista”.
Nel dopoguerra si ritorna a parlare delle “stragi rosse” e non manca l’argomento foibe senza minimamente parlare dei crimini fascisti in Jugoslavia durante tutto il periodo della loro dominazione.
Nella bibliografia, si accreditano le falsità di un Pisanò e naturalmente del Pansa.
Il libro in questione si inserisce nel filone del revisionismo storico e che non ha nulla da insegnarci.
Senza dilungarmi oltre chi vuole conoscere la storia, quella vera e non romanzata o usata in senso anticomunista non ha bisogno di questi libri (stampati e sponsorizzati dalla Fondazione dell’industriale Canziani e distribuiti gratuitamente a tutti), basta andare presso gli Istituti Storici o alla Casa della Resistenza.
Personalmente sono intervenuto durante la serata di presentazione contestando l’impostazione, il contenuto antistorico e le finalità dell’operazione, intervento che ha riscosso il sostegno dei compagni delle sezioni ANPI presenti. Va pure ricordato che i due autori, volutamente, non hanno invitato l’ANPI!
Con questa breve nota ho sentito il dovere di segnalare ai compagni antifascisti contenuti e finalità dell’operazione e naturalmente l’inutilità dell’acquisto (c’è chi lo sta proponendo a 25 euro!).
Piero Beldì
Associazione Culturale Stella Alpina
lunedì 29 dicembre 2014
IL COMUNISMO SE N'È ANDATO, DORMITE SOGNI TRANQUILLI, BAMBINI
Vent'anni dopo, 28.10.2009
10 novembre 1989, ore 17.30 circa. Eravamo in casa dello zio materno, gli adulti in una stanza, i bambini nell'altra. Tassativamente. "Facciamo discorsi da grandi, i bambini non ci devono essere", dicevano. Bambini a chi? Io avevo 15 anni. Ma accettavo questa imposizione, tanto di là mi annoiavo.
Stavo guardando "Il Libro della Giungla", una videocassetta importata dall'estero dai marinai della famiglia (a Burgas in ogni famiglia c'era uno), cercando di capire qualcosa delle conversazioni, visto che erano in inglese.
Ad un certo punto il cartone si è interrotto, non mi ricordo se era stata la sorellina a combinare qualcosa con i tasti, ma vedo che parte il Programma 1 (all'epoca c'erano due canali, 1 e 2) ed una signora molto seria dice che Todor Jivkov ha rassegnato le dimissioni. Le immagini facevano vedere la sala plenaria del congresso del Partito e hanno inquadrato un Jivkov molto, ma molto vecchio e stanco. Almeno a me è sembrato così.
Sono corsa di là a chiamare gli adulti.
"Todor Jivkov ha rassegnato le dimissioni!" - ho urlato.
"Ma dai, figurati, non avrai capito" - in risposta.
"Venite di là a vedere".
Hanno ascoltato la TV, si sono ammutoliti. Poi sono tornati di là.
Nelle settimane successive nell'aria si sentiva soprattutto l'incertezza. Ma sarà vero? E' finita? Cosa succede adesso?
Succedevano un sacco di cose strane, come per esempio guardare il telegiornale. Prima di 10 novembre a casa non si guardava mai il TG e adesso alle ore 20 correvano tutti a bersi ogni parola che dicevano i presentatori. Le facce in TV erano le stesse, ma gli adulti le guardavano in modo diverso.
Poi hanno dato fuoco alla Casa del Partito a Sofia. La violenza sugli schermi televisivi. E non era un film di guerra.
Un'insegnante che ci aveva obbligati a leggere un noiosissimo libro scritto da un ex partigiano (fuori dal programma scolastico) ha dichiarato in classe: "Ragazzi, voi sapete che io non sono mai stata comunista!" Sì, infatti, e "Nella tempesta si rafforzano le ali" (il nome del libro appunto)?
L'8 dicembre era la festa del mio rinomato liceo da centro città: ogni anno la scuola teneva a farsi vedere in quell'occasione, si dedicava tanto tempo per l'organizzazione, di solito si impegnavano diversi insegnanti e tutto era molto solenne. Negli ultimi anni però con l'avvio della perestrojka qualcosa era già cambiato. Non c'erano le solite poesie e canzoni patriottiche, mancava quasi il Partito e l'Unione Sovietica, si poteva fare qualche sketch sugli insegnanti e avanzare qualche timida protesta contro le regole degli adulti. Insomma, la libertà era già nell'aria. Anche se non si sapeva mai fin dove ci si poteva spingere.
Era un'ottima occasione per "rompere le catene" (stavamo giusto studiano Prometeo). Abbiamo impostato un programma dove il Partito veniva preso di mira, accusandolo di aver rubato e impoverito il paese. Ad un mese di distanza dal 10 novembre, non ci hanno permesso di metterlo in atto. Alla prova generale diverse parti del testo furono cancellate. "Per cattivo gusto", ci è stato detto.
Il 19 dicembre finalmente anche a Burgas è stata organizzata la prima manifestazione contro il potere locale, impersonato da un vecchietto al potere da almeno 20 anni. Fischi davanti alla sua abitazione, gente che urlava. A pensarci adesso, mi viene da sorridere. Il presidente del Partito della Regione di Burgas (la più grande numericamente e la più "pesante" industrialmente) abitava in mezzo ai comuni mortali, a due passi dall'abitazione dei miei nonni, in un condominio assolutamente anonimo. L'unica cosa a distinguerlo era la Chaika nera della "tenera" età di 20 anni.
Dopo qualche mese (elezioni, osservatori esteri, accuse di brogli) è iniziato lo sciopero generale a Sofia. La TV apriva e chiudeva le trasmissioni con il LET IT BE dei Beatles. I giornalisti scioperavano contro il partito che naturalmente aveva vinto le elezioni. Anche a Burgas abbiamo manifestato, eravamo tutti indignati, i comunisti avevano truccato le nostre preferenze elettorali. Volevamo riprenderci la possibilità di decidere, ci sentivamo derubati dai nostri vecchi che avevano sopportato per troppo tempo lo status quo.
No ai privilegi! No alla burocrazia! No all'ipocrisia! No ai divieti!
Si alla libertà, si alle pari opportunità, si al futuro!
Siamo giovani, siamo intelligenti, il mondo ci appartiene!
("Settembre sarà maggio, la vita sarà un paradiso, sarà!" se non fosse stata scritta da un comunista, la poesia sarebbe calzata a meraviglia ai nostri sentimenti di quei giorni.)
"Il comunismo se n'è andato, dormite sogni tranquilli, bambini!" Era un motivo ricorrente di una canzone che ci martellava tutto il giorno.
Mi sentivo forte anche io, ce l'avevo con tutti quelli che avevano votato per i comunisti, ma non solo le ultime elezioni, anche quelle del referendum del 1946.
In quei giorni ho chiesto a mia nonna: "Ma tu al referendum del 1946 hai votato per la repubblica oppure per la monarchia?" "Tutti abbiamo votato per la repubblica", mi ha risposto lei, seccata di essere accusata di simpatia per i comunisti. "Tu non sai nemmeno come era prima, non volevamo continuare a vivere come degli animali".
"Tu per chi hai votato alle ultime elezioni?" ho chiesto accusatoria all'altra nonna. "Per BKP (il partito comunista bulgaro)". "Ma come, non sei stanca di 40 anni di regime, della mancanza di libertà, dell'impossibilità di viaggiare all'estero?" Mi ha guardato stranita e mi ha risposto: "I comunisti mi hanno permesso di costruirmi una casa di due piani con il cortile. I miei due figli si sono laureati e hanno trovato un buon impiego. Quando sono malata, viene il medico in casa. Prendo la pensione tutti i mesi e se mi va, lavoro un po' la terra, altrimenti compro i pomodori in negozio. Per me questo è stato il comunismo."
E pure io che di lingua ne avevo tanta (dicevano), mi sono zittita.
Autore: Milena Kotseva, Reggio Emilia, 35 anni
giovedì 4 dicembre 2014
Banditi
partigiani
e brigatisti, le contraddizioni del pensiero borghese di sinistra
Che
importa se ci chiaman banditi
il popolo conosce i suoi figli
il popolo conosce i suoi figli
La
miseria culturale a sinistra deriva dall'ulteriore semplificazione di
un pensiero già fin troppo semplificato. Intendiamo alludere al
berlinguerismo,
un
apparato concettuale che solo marginalmente – sarà meglio dirlo –
c'entra qualcosa con Enrico Berlinguer.
È
comunque dalla lettura della tematica della questione
morale,
coniugata con la pratica dei governi di solidarietà nazionale, che è
nata l'ottica perversa che identifica la democrazia con la legalità.
L'errore
è sin troppo evidente: si dà per scontato che l'insieme di norme
giuridiche presenti siano il punto d'approdo perfetto e definitivo e
che non possa esserci, in un domani, una diversa legalità, che
superi
e neghi
quella attuale.
Che
nel bagaglio di quelli che, allora, si chiamavano ancora comunisti,
sia entrata questa concezione hegeliana della fine
della storia, la
dice lunga sulla malafede intellettuale dei dirigenti dell'ultimo
PCI.
Che
fossero in malafede è reso ancora più evidente dal fatto che la
nuova concezione fu contrabbandata in sordina, perché una svolta
palese avrebbe comportato la necessità di una revisione della
propria storia.
Anche
volendo continuare a ignorare la questione del ruolo di Secchia nel
partito del dopoguerra, infatti, non ci si sarebbe potuti esimere
dall'esprimersi sulla storia del progresso sociale e democratico
della nazione, che non fu, se non marginalmente, storia parlamentare.
Dalla
riforma agraria allo statuto dei lavoratori, passando per la lotta al
governo Tambroni, la storia delle conquiste democratiche e sociali è
difatti storia di lotte di piazza, con utilizzo sistematico e
organizzato di pratiche illegali tanto da parte dei partiti popolari
(PCI, PSI), quanto della CGIL.
Su
questa parte della propria storia (che pure era quella che ne
spiegava la crescita) il PCI ormai avviato alla Bolognina, preferì
stendere un velo.
Non
lo squarciarono i vecchi militanti proletari, avvezzi a ipotizzare
una supposta teoria delle due verità di togliattiana memoria, né i
giovani borghesi, arruolatisi nel partito sulla base di un equivoco o
in forza di un acutissimo fiuto opportunista.
Del
resto le stragi di stato, la connivenza di neofascisti e mafie con
apparati statali e partiti di governo, la P2, gli scandali finanziari
e la corruzione, sembravano disegnare confini tra legalità e
illegalità che ricalcavano, grosso modo, i confini precedentemente
determinati su base di classe. Questo fu il trucco con cui il cancro
ideologico ebbe modo di infiltrarsi, silente, in tutti i tessuti
delle organizzazioni politiche e sociali che erano state classiste.
A
tanti anni di distanza se ne vede la devastazione.
La
maggior parte di quelli che, in buona fede, si sentono ancora uomini
e donne di sinistra, compresi quelli che si sono meritoriamente
rifiutati di seguire la deriva opportunista che da Occhetto è
arrivata fino a Renzi, si sono ridotti a ottusi benpensanti
teledipendenti da talk
show animati
dalla stessa logica dei rotocalchi destinati, fino a non moltissimo
tempo fa, alle cameriere.
E,
ragionando come quelle, non passa settimana che non raccolgano firme
per introdurre un nuovo reato nel codice penale.
Il
sequestro di Aldo Moro fu un momento cardine di questa operazione.
Tre anni dopo, la copertura mediatica della tragedia di Vermicino metterà in luce sia le proporzioni inaspettate della pancia
emotiva del
paese, sia la capacità dei media stessi di estendere la reazione
emotiva anche ai settori più razionali della pubblica opinione, pena
l'isolamento, se non l'ostracismo, sociale.
Era
la chiave per ottenere un
nuovo conformismo e questa tecnca doveva già essere ben conosciuta dagli addetti ai lavori.
È
lecito pensare che l'informazione giornalistica e televisiva, nei 55
giorni del sequestro Moro, sia stata sotto lo stretto controllo di
esperti, anche stranieri, di strategia della comunicazione.
Al
ministero degli interni c'è Cossiga, uomo di Gladio, e a Taviani,
che di Gladio fu il vero e proprio comandante militare, si indirizza
la prima lettera di Aldo Moro.
Sono
messaggi trasversali a cui si devono assommare le arcinote pressioni
di gruppi economici e finanziari per una svolta autoritaria e la
necessità di seppellire definitivamente il cumulo delle tante
porcherie su cui Pasolini aveva cercato di alzare il coperchio.
C'è,
dunque, nell'aria una miscela esplosiva e si possono creare nel paese
le condizioni psicologiche favorevoli a una soluzione autoritaria.
Anche i movimenti dei servizi di intelligence sono ben poco
rassicuranti.
Il
PCI corre ai ripari.
L'incidente
di Vermicino metterà a nudo la fragilità morale della nazione, ma mostrerà anche come il paese riconosca in Sandro Pertini il simbolo
della propria unità. Anche la straordinaria popolarità di Pertini è un fatto noto.
Berlinguer
decide di cavalcare la tigre, la forza del PCI è il nerbo del fronte
della fermezza e Pertini ne è il capo. La destra è così fuori
gioco.
Il
buon Bulow
è
inviato a fare il giro dell'ANPI, per richiamare i partigiani
all'ordine e invitarli perentoriamente a rompere ogni contatto
residuo con le BR con le quali, almeno fino al sequestro Sossi, hanno
avuto, se non collusioni, simpatie.
Qui
c'è il grande divorzio dall'illegalità.
Ma,
come si può desumere dalla stringata cronaca precedente, si fa
cordone sanitario rispetto a un gruppo che si presta oggettivamente
alla
provocazione.
Nell'immaginario collettivo di molta sinistra, però, le BR passano
velocemente dalla critica oggettivante (compagni che sbagliano), alla
condanna soggettivante (delinquenti).
Anche
in questo caso, si è cercato di spiegare il cambiamento
dell'atteggiamento sulla base dello sdegno emotivo suscitato dalla
uccisione di Guido Rossa, sei mesi dopo quella di Moro.
Ma
è una spiegazione che non regge e che scambia la causa con
l'effetto. Il fatto stesso che Rossa vada a denunciare i suoi
compagni di lavoro che fanno circolare materiale delle BR, dimostra
che per lui, attivista del partito e del sindacato, le BR sono
già
una banda di delinquenti.
Il
fatto è che, in quei sei mesi, gli elementi anticomunisti da tempo
infiltrati nel PCI, che sono tanti e in ottime posizioni, hanno
approfittato della mossa tattica di Berlinguer per prendere in mano
le redini del partito. La loro forza è ormai tale che, l'anno
successivo, non esiteranno a boicottare, senza nascondersi troppo, la
linea del leader rispetto alla durissima, e decisiva, vertenza Fiat.
Quella
condanna sembra diventata definitiva e guai ad accostare i partigiani
alle BR. Sono il diavolo e l'acquasanta.
A
determinare l'orizzonte manicheo, l'idea piuttosto ingenua che i
partigiani, a differenza delle BR, abbiano agito sulla base di
un'idea evidentissima e indubitabile, condivisa dall'intera nazione,
un pugno di degenerati a parte.
Fortunatamente,
queste circostanze evidentissime che indicano la retta via,
generalmente nella storia non accadono, e le rare volte che vi hanno
figurato sono servite per abbrustolire streghe, o deportare ebrei, o
gasare i Rosemberg.
Non
fu la maturazione della coscienza antifascista a determinare la
Resistenza, è vero il contrario: fu la Resistenza a far maturare la
coscienza antifascista.
La
gran massa di chi salì in montagna, vi andò per sfuggire alla leva
di Salò. La prima idea fu nascondersi, la seconda che non ci si
poteva nascondere senza combattere.
Fu
proprio questo il merito delle avanguardie comuniste, trasformare la
contraddizione immediata di chi non voleva andare in guerra, in
contraddizione politica prima e in contraddizione di classe poi. La
famosa linea di massa.
Ed
è proprio questa la critica che dobbiamo fare alle BR, aver fallito
la linea di massa cercando di fare un salto brusco dalla
contraddizione oggettiva di classe alla scelta ideale. Sono quindi
imputabili di volontarismo,
cioè
di aver agito sulla base di un ordine di idee abbastanza borghese.
Cosa
che non ha niente a che fare con la delinquenza, sia chiaro.
Ma
se i comunisti possono avanzare questa critica, la sinistra borghese
non può farlo.
Essi
si mossero, indignati come voi e un po' illuministi come voi, per
reagire nell'Italia di Piazza Fontana e dell'Italicus, nell'Italia
dei servizi deviati collusi con i colonnelli greci, nell'Italia di
Sindona e Calvi, nell'Italia dei picchiatori fascisti a braccetto con
i ministri democristiani, nell'Italia della massoneria e della mafia,
nell'Italia in cui un padre di famiglia era volato dalla finestra
della questura...
Per
voi, dovrebbero essere degli eroi.
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